
Omelia nella Messa in onore di san Biagio
cappella dell’Ospedale Panico, Tricase, 3 febbraio 2023.
Cari fratelli e sorelle,
la sofferenza è certa e inevitabile. La persona sofferente avverte la precarietà e la fragilità della condizione umana, e può giungere a rimettere in discussione il senso della propria vita. Il timore della morte è il nodo cruciale della esistenza umana. Nessuno uomo è preparato a sufficienza per vivere l’ultimo tratto della sua esistenza. Per questo occorre prestare molto cura a coloro che sono nel dolore.
Il senso del dolore: umanizzare la malattia
Il dolore e la malattia vengono troppo facilmente considerati come una perdita, un incidente di percorso che non doveva capitare, un intruso nella vita, da minimizzare a ogni costo, da contrastare, da obliare. Quando si è sani ci si ostina a non pensare a eventuali malattie; quando il male ci colpisce, si fa di tutto perché la salute sia ritrovata il più presto possibile, considerando la malattia come una parentesi.
Se consideriamo le risposte che sono state offerte per lenire il dolore possiamo dire che il buddismo considera il dolore come la forma più radicale di rassegnazione; l’edonismo annega la sofferenza nel piacere; lo stoicismo sceglie la strada dell’apatia. Altri pensano a una lotta eroica attiva ed esterna.
Nell’Antico Testamento, la malattia castigo per il peccato. Nel passare accanto a un cieco di nascita, gli apostoli fanno una domanda che mette in evidenza un modo di pensare allora molto comune: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9, 1). Gesù corregge gli apostoli: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9, 3). Anche se oggi è strano parlare in questi termini, in realtà la domanda non è tanto lontana dalla mentalità odierna, secondo la quale la sofferenza è vista come un destino cieco per il quale non c’è posto se non nella rassegnazione, una volta falliti i tentativi di annullarla.
Benedetto XVI, invece, propone la seguente riflessione: «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine»[1].
Bisogna avere cura di chi soffre. L’uomo non può essere oggetto solo della tecnologia. Dal medico ci si attende non semplicemente la cura fisica, ma il sostegno di un fratello, di una sorella. La nota psichiatra americana Elisabeth Kübler-Ross ha elencato alcune reazioni proprie dei malati inguaribili: il rifiuto e l’isolamento, la collera e il risentimento, il venire a patti con la malattia, la depressione, l’accettazione[2]. In realtà, ella osserva che nel malato non viene mai meno la speranza. La persona conserva fino alla fine «la speranza che si possa trovare qualche cura, qualche medicina in tempo utile per liberarlo dalla sofferenza. Ha mantenuto questa speranza fino all’ultimissimo giorno»[3]. Bisogna, dunque, umanizzare la sofferenza e curarla con gli stessi gesti primordiali con i quali si accoglie e si custodisce la vita umana.
Curare il dolore con i gesti dei primi mesi di vita
La prima forma della cura è avere occhi per guardare, come avviene nel gesto che intercorre tra la madre e il figlio. Nello scambio dello sguardo c’è tutta la vita e tutto il loro amore. Spesso, nel gergo comune, si parla di «contatto oculare», di «sguardo», di «atteggiamento». Un fatto è certo: gli uomini sono esseri orientati visivamente e si fidano più della vista che degli altri sensi. Per interpretare il comportamento degli altri, guardano volentieri negli occhi. Se è vero che “gli occhi sono lo specchio dell’anima”, a volte basta uno sguardo per capire quello che si nasconde nell’anima. Le parole possano ingannare, gli occhi non mentono mai, sanno comprendere i sentimenti dell’altro. Gli occhi e gli sguardi giocano un ruolo particolarmente importante durante la dinamica di seduzione. Sono spesso l’inizio di quello che poi si trasforma in un vincolo sponsale.
Anche nel momento della sofferenza possono avere un valore curativo. Pablo Neruda, nella poesia “Se tu mi guardi con i tuoi occhi” sintetizza la forza terapeutica dello scambio: «Se tu mi guardi con i tuoi occhi / dai quali mi viene incontro la tenerezza / e se io guardandoti con i miei occhi / ti faccio spazio dentro di me, / in questo incrocio di sguardi / che riassume milioni di attimi e di parole, / in questo scambio silenzioso / che per entrambi è guardare e lasciarsi guardare, / in questo penetrare l’uno nell’altro / nel tempo con benevolenza, / ci è dato tessere la reciprocità di questo amore / e forse la gratuità».
La luminosità del sorriso è la seconda forma di guarigione. Ha radici nella propria infanzia e nelle prime relazioni significative sperimentate nel rapporto con la madre. Compare fra il primo e il secondo mese di vita come reazione a stimoli esterni. La mamma parla con il sorriso. Il sorriso di un bambino è uno stimolo sociale che scatena il suo rapporto con la madre. Quando la mamma riceve un sorriso dal proprio bambino reagisce amorevolmente, prolungando la sua attenzione, il suo accudimento e la sua cura.
Il sorriso è un potente strumento relazionale a nostra disposizione. Riguarda questioni profonde legate al senso di sé e alla propria efficacia relazionale. Si collega alla propria autostima. Sorridere è un’azione tanto facile e spontanea per alcuni quanto rara e difficile per altri. Persone solari sono coloro che, con il loro sorriso, illuminano il loro viso e quello di chi li circonda. Il sorriso fa parte dei segnali di comunicazione non verbale. Indica affetti positivi quali la felicità, la tenerezza, il piacere, la disponibilità verso l’altro. È un invito all’avvicinamento; è un comportamento di saluto, l’espressione della disponibilità della persona all’approccio e all’avvio di una relazione sociale. È contagioso: trova rispecchiamento nell’altro e genera disponibilità all’approccio e alla relazione.
Interessante è l’esperienza che va sotto il nome dei “Sassi del sorriso”. Sono presenti in giardino, nelle sale d’attesa, sulle sedie e sulle panchine: i pazienti dell’ospedale hanno scoperto pietre colorate, decorate con tante sfumature e con frasi di incoraggiamento, dipinti da autori anonimi. Pare che gli artisti che le hanno realizzate e posate in tutta l’area dell’ospedale abbiano preso ispirazione dal gruppo Facebook «Un sasso per un sorriso», un’iniziativa che era nata durante la pandemia per regalare momenti di stupore e meraviglia a perfetti sconosciuti. Gnomi, fiori, pesci, rane, angeli, quadrifogli, cuori decorati con matite, pennarelli, pennelli, parole di sostegno e conforto. Spesso i sassi vengono solo guardati e non toccati, anche se nessuno ha stabilito alcuna regola, e anzi, sembra quasi che gli artisti che li hanno dipinti lo abbiano fatto proprio con l’intento di regalarli.
Il direttore generale dell’Istituto Oncologico Veneto- Irccs Patrizia Benini afferma: «Una volta c’erano i messaggi racchiusi in una bottiglia, affidati alle onde del mare. Oggi da noi non è inconsueto incappare in questi sassolini, che sono contemporaneamente messaggi e messaggeri di speranza». «In fondo, – egli continua – la pietra è sinonimo di origine, e ci ricorda che a questo mondo ciascuno di noi è un sassolino chiamato a dare il meglio di sé, in termini di colore, luminosità, letizia, creando così dei circoli virtuosi di positività che non possono che far del bene. In salute, come in malattia». Alda Merini nella sua poesia “Sorridi” invita a sorridere: «Sorridi donna / sorridi sempre alla vita / anche se lei non ti sorride. / Sorridi agli amori finiti / sorridi ai tuoi dolori / sorridi comunque. / Il tuo sorriso sarà / luce per il tuo cammino / faro per naviganti sperduti. / Il tuo sorriso sarà / un bacio di mamma, / un battito d’ali, / un raggio di sole per tutti.
Il terzo modo di prestare la cura è toccare e accarezzare. Sono le carezze amorevoli di una madre e di un padre che ci accolgono nel mondo. Attraverso il contatto con la pelle, impariamo a percepire lo stato d’animo di chi si occupa di noi. Da bambini, amiamo i nostri genitori amando il loro corpo che tocchiamo e cerchiamo con piacere. Attraverso il primo tocco iniziamo a conoscere le fondamenta del linguaggio d’amore e della comunicazione con l’altro.
Crescendo impariamo a prenderci cura di noi stessi attraverso le carezze quando, ad esempio, ci fa male qualche parte del corpo ed istintivamente la accarezziamo. Impariamo a comunicare attraverso il contatto: tenendoci per mano, sfiorandoci, prendendoci cura dell’altro anche solo attraverso un piccolo tocco. Se viviamo una delusione o un momento di dolore sentiamo il bisogno di buttarci nelle braccia di qualcuno perché ci consoli e si occupi di noi. Quando una persona si sente accarezzata, rafforza la sua autostima e valorizza il proprio corpo come qualcosa di piacevole capace di suscitare desiderio e donare piacere.
L’assenza di contatto provoca disturbi dello sviluppo, ansia e insicurezza in se stessi. In realtà, ognuno di noi ha bisogno di relazionarsi attraverso il contatto, un tocco, una carezza. Nella relazione a due, aprirsi alle carezze apre ad un’intimità più profonda, ci permette di imparare a sentire l’altro al di là delle parole e a creare un linguaggio unico che solo la coppia conosce trovando una complicità speciale. Imparare a scoprire il nostro modo di provare piacere e come far provare piacere all’altro esplorando le carezze su tutta la superficie del corpo, ci conduce a creare un’intesa ed un’unione speciali.
La nostra pelle è il nostro confine con il mondo, può essere il canale attraverso il quale prenderci cura dei nostri mali fisici ed emotivi perché il contatto, ricco di affettività, stimola la nostra energia vitale. La carezza dice molte cose: ti accolgo, vai bene così come sei, non preoccuparti ti riconosco, ti voglio bene, ti amo. Perciò non dobbiamo elemosinarla, ma donarla il più possibile: un semplice gesto racchiude in sé una ricchezza immensa per il nostro benessere ed il benessere di chi ci è accanto.
Herman Hesse scrive questo bel componimento: «Tienimi per mano al tramonto, / quando la luce del giorno si spegne e l’oscurità fa scivolare il suo drappo di stelle… / Tienila stretta quando non riesco a viverlo questo mondo imperfetto… / Tienimi per mano… / portami dove il tempo non esiste… / Tienila stretta nel difficile vivere. / Tienimi per mano… / nei giorni in cui mi sento disorientato… / cantami la canzone delle stelle/ dolce cantilena di voci respirate… / Tienimi la mano, / e stringila forte prima che l’insolente fato possa portarmi via da te… / Tienimi per mano e non lasciarmi andare… mai…».
Infine la cura più dolce è il sussurro della voce, l’espressione calda della parola, la voce del silenzio. Dio lo si conosce nel suo silenzio. Spesso il silenzio è il «luogo» nel quale Dio ci aspetta: così riusciremo ad ascoltare lui invece di ascoltare il rumore della nostra stessa voce. Il silenzio non è vuoto, ma pieno della presenza divina. A Mosè sul Sinai Dio appare nello splendore della sua gloria: la montagna intera fu scossa violentemente, Mosè parlava e Dio gli rispondeva fra tuoni e lampi (Es 19, 16-22). Tutto il popolo ascoltava impressionato dalla potenza e dalla maestà di Dio. Benché vi siano altre teofanie simili che scandiscono la storia di Israele (Gn 18, 1-15; 1Re 18, 20-40; Is 6, 1-13), la maggior parte delle volte Dio si manifestava al suo popolo in un modo diverso: non nello splendore della luce, ma nel silenzio, nell’oscurità.
Il silenzio custodisce il mistero. Nascosto in una caverna, il profeta Elia vede gli stessi segni della teofania dell’Esodo: il terremoto, l’uragano, il fuoco; però Dio non era lì. Dopo il fuoco, dice lo scrittore sacro, «ci fu il mormorio di un vento leggero». Elia si coprì il volto con il mantello e uscì all’incontro di Dio. Fu allora che Dio gli parlò (cf. 1Re 19, 9-18). Il testo ebraico dice letteralmente che Elia udì «il rumore o la voce di un silenzio leggero». La versione greca dei Settanta e la Vulgata hanno tradotto «un vento leggero», probabilmente per evitare l’apparente contraddizione tra rumore o voce, da una parte, e silenzio,
“La voce del silenzio” è un brano musicale composto da Paolo Limiti, Mogol ed Eli Isola, presentato al Festival di Sanremo 1968 nell’interpretazione di Tony Del Monaco e Dionne Warwick.
Il testo parla di una persona che vuole star da sola a pensare, ma nel silenzio troppe cose e troppi ricordi ritornano nella mente, nel pensare si accorge che la persona che ha sempre amato non ha mai perso il posto nel suo cuore. L’inizio della melodia corrisponde al tema principale del preludio in Do minore del secondo volume del Clavicembalo Ben Temperato di Johann Sebastian Bach, BWV 871. Una voce parla dentro e le cose tornano a vivere.
Questi gesti semplici umanizzano la sofferenza e leniscono il dolore.
[1] Benedetto XVI, Spe salvi, 38.
[2] E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Cittadella Editrice, Assisi 202021, pp. 59-166.
[3] Ivi, p. 186