LA FONDAZIONE DEL SEMINARIO DIOCESANO DI UGENTO (1752)

di Salvatore Palese

I seminari diocesani furono istituiti dal concilio di Trento nella sessione 23 del 15 luglio 1563, con il canone 18 del decreto di riforma. La fondazione di questi collegi, specificamente finalizzati alla educazione spirituale ed intellettuale degli aspiranti agli ordini sacri, diveniva obbligatoria per tutte le diocesi e costituiva uno dei doveri più importanti dell’ordinario diocesano. Per i padri conciliari era questo il rimedio adeguato alla insufficienza pastorale del clero. Infatti, i chierici avrebbero vinto la inclinazione ai piaceri mondani e sarebbero stati perseveranti nella disciplina ecclesiastica, se, ancora adolescenti e non del tutto assuefatti ad abitudini viziose, fossero stati educati religiosamente e fossero stati istruiti nelle scienze ecclesiastiche.

Il canone conciliare, stabiliva poi che venissero accolti ragazzi di almeno dodici anni, nati da genitori legittimi, sufficientemente istruiti nel leggere e scrivere ed in particolare aventi indole ed intenzione da cui sperare perseveranza nel ministero ecclesiastico. Si dovevano preferire i ragazzi di famiglia modesta a quelli di famiglia agiata, ma non escludere quest’ultimi purché si mantenessero a proprie spese ed avessero il desiderio di curare gli interessi di Dio e della Chiesa prima dei propri. Appena accolti in seminario, questi adolescenti avrebbero ricevuto la tonsura e l’abito talare per informarsi dello spirito ecclesiastico. Sarebbero stati distribuiti in classi, secondo l’età e il grado di istruzione; alcuni di loro sarebbero stati assegnati dal vescovo al servizio liturgico nelle chiese; altri sarebbero stati trattenuti in seminario per attendere allo studio. La preparazione intellettuale si sarebbe compiuta secondo un programma che comprendeva grammatica, canto, aritmetica e poi la Sacra Scrittura, la storia, i santi Padri e la dottrina dei Sacramenti, i loro riti, soprattutto quanto riguardava la confessione. Per la loro educazione religiosa, i chierici avrebbero assistito ogni giorno alla messa, avrebbero confessato i loro peccati almeno ogni mese e si sarebbero comunicati con la frequenza indicata dal confessore, avrebbero infine prestato il servizio liturgico nei giorni festivi nella Cattedrale o in altre chiese.

Secondo il concilio, il vescovo doveva direttamente seguire la crescita educativa dei chierici e quindi espellere quelli che si dimostravano incorreggibili e chiamarne altri; connesso strettamente al suo personale ministero era quello di avere sempre efficiente «il semenzaio dei ministri di Dio». Il vescovo avrebbe provveduto loro una residenza comune, avrebbe nominato un direttore che attendesse alla vita di collegio e si sarebbe avvalso del consiglio di due speciali commissioni, di canonici, per le decisioni riguardanti la disciplina e l’amministrazione economica dell’istituto. Infine il vescovo avrebbe provveduto a nominare dei maestri che poteva scegliere tra quelli che già possedevano benefici con annessi obblighi di insegnamento. Perché egli fosse in grado di realizzare al più presto «questa santa e pia opera», il concilio diede la facoltà di impiegare parte delle rendite della mensa vescovile, del Capitolo e di altre istituzioni, la facoltà di costituire la dote del seminario con i beni di benefici semplici, ospedali e fondazioni varie, ed infine la facoltà di tassare tutti i beneficiati ed enti ecclesiastici di qualsiasi natura e grado, esistenti nella diocesi. Il seminario, quindi, si qualificava diocesano anche perché tutte le forze economiche della diocesi avrebbero contribuito alla sua fondazione e al suo funzionamento.

Il canone 18 del decreto del 1563 delineava compiutamente la configurazione del seminario e dava indicazioni concrete e dettagliate per la sua fondazione. Si ispirava alle esperienze del cardinale inglese Reginaldo Pole e di altri. Le sue prescrizioni, a differenza delle precedenti riguardanti l’istituzione di un maestro di Sacra Scrittura presso ogni cattedrale e quella di un maestro per l’insegnamento gratuito della grammatica ai chierici e ad altri scolari poveri, richiedevano maggiore impegno da parte dei vescovi. Perciò la loro esecuzione non si verificò subito come il concilio imponeva; anche perché la frequenza non era stata resa obbligatoria per tutti i chierici della diocesi e perché i decreti riformatori del Tridentino furono accettati nei paesi cattolici subordinatamente alla politica giurisdizionalistica dei loro sovrani. La fondazione dei seminari in Italia tardò ad essere un fatto generale, anche se non avvenne così tardi come in Francia ed in Germania. In questi ultimi anni le ricerche sulla fondazione di questi istituti non sono mancate, ma non consentono ancora di delineare un quadro d’insieme nel quale sia chiara la condizione del clero ed i tentativi compiuti dai vescovi per elevarne la condotta. Le ricerche in tal senso favorirebbero la conoscenza dei tempi e dei modi in cui fu attuata da riforma programmata dal concilio, la scoperta degli uomini e dei gruppi che ne furono protagonisti e che opposero resistenza, l’individuazione degli ostacoli superati e delle situazioni che vennero trasformate.

Così ci avvicineremmo alla comprensione delle vicende religiose ed ecclesiastiche e, di riflesso, di quelle sociali e politiche, della Chiesa in Terra d’Otranto, abbandoneremmo gli schemi preconcetti, le visioni globali e fantasiose, i giudizi sommari e non storici sulla Chiesa post-trentina, che ancora trovano credito e divulgazione.

Notizie sulla fondazione di un seminario nelle diocesi estreme della Terra d’Otranto, cioè in quelle di Ugento e di Alessano, ha fornito per primo mons. Giuseppe Ruotolo. Fortunate ricerche archivistiche, compiute durante il riordinamento dell’Archivio diocesano negli anni 1963-1964, portarono molto vicino alla data e alle vicende della fondazione di quello ugentino. I punti oscuri furono definitivamente chiariti dal rinvenimento nell’Archivio ugentino della raccolta di documenti dal titolo Unio Benefici Ecclesiastici sub titulo SS. Annunciationis et Animarum purgantium cum Venerabili Seminario Civitatis Uxenti  e finalmente dal ritrovamento degli Acta erectionis Seminarii Dioecesani in hac civitate Uxenti. Uxenti 1752. I dati raccolti trovarono conferma nella documentazione conservata nell’Archivio della Congregazione del Concilio, ora del Clero, e nell’Archivio Segreto Vaticano. Fatta, quindi, piena luce sulle circostanze in cui il seminario fu eretto in Ugento, si è ora in grado di esporne compiutamente la vicenda.

LA MANCATA ATTUAZIONE DEL DECRETO DEL CONCILIO DI TRENTO

Tra i firmatari del decreto trentino vi fu anche il vescovo ugentino Antonio Sebastiano Minturno (1559-1565) che, prima di partecipare al concilio, aveva risieduto in diocesi, aveva compiuto una visita pastorale nel 1559 ed aveva dato un regolamento ai canonici per la recita corale dell’ufficio divino, uniche testimonianze della sua attività pastorale. Quanto al seminario, il Minturno ed il successore Desiderio Mazzapica (1566-1593) si trovarono di fronte le difficoltà che già a Trento erano state prospettate durante la discussione sul decreto, che cioè i vescovi del regno di Napoli non avevano i mezzi economici necessari. Nel settembre 1567 fu celebrato ad Otranto il primo concilio provinciale che, riecheggiando le disposizioni trentine, fissò la scadenza di quattro mesi entro i quali i vescovi suffraganei avrebbero dovuto fondare seminario ed eventualmente, dichiarare le insuperate difficoltà. Ma le disposizioni otrantine hanno un carattere prevalentemente disciplinare e contengono espressioni generiche; non raccolgono nessuna delle indicazioni concrete che il decreto trentino presentava; non esprimono quelle idealità che dovevano sostenere tanto impegno. I vescovi della provincia otrantina dimostravano scarsa convinzione della necessità del seminario, ben lontani dall’indicazione trentina di un seminario comune, interdiocesano, nell’ipotesi che le singole chiese non fossero state in grado di erigerne uno proprio.

Perciò i vescovi salentini non andarono oltre le deliberazioni e le loro diocesi attesero i seminari: chi per decenni, chi per uno e chi per due secoli. I vescovi ugentini si giustificarono dell’omissione con la scarsità delle rendite della mensa vescovile e l’irreperibilità di benefici semplici da destinare alla costituenda dote.

Alla fine del ‘500, infatti, le rendite della mensa non superavano i 772 ducati 13 ed il vescovo Ludovico Ximenes (1627-1636) rilevava nel 1630 che esse gli erano così scarse «ut vix praebeant vivendi usum». Come i predecessori, egli non era riuscito neppure ad assicurare l’istruzione dei chierici con un maestro di grammatica e di musica. Conseguentemente il vescovo Girolamo De Martino (1637-1648) costatò che l’insufficienza culturale, degli ecclesiastici era così diffusa che pose alla Congregazione del Concilio il quesito se poteva giudicare benevolmente la «scientia debita» e ritenere idonei agli ordini quei chierici che si fossero dimostrati fedeli al servizio liturgico e di buoni costumi. In verità, non erano soltanto i chierici a non voler apprendere il latino perché poveri, ma mancava anche chi glielo insegnasse. Il De Martino soggiungeva che nelle diocesi vi erano soltanto benefici col diritto di patronato e di così esigue rendite da non poterli sottoporre a tassazione; i genitori dei chierici non erano nelle possibilità di contribuire all’erezione ed alla vita del seminario. Non trovando altri capitali, da destinare, concludeva nel 1644: «non video quomodo possa erigi Seminari». E così fu per tutto ‘600.

Una situazione simile si verificò nella confinante diocesi di Alessano. Sempre con la scarsezza delle rendite della mensa, il vescovo Ercole Lamia (1578-1591) giustificò la mancanza del seminario e della prebenda teologale. Ai primi del ‘600 il vescovo Celso Mancini (1597- 1612) riferiva che i chierici frequentavano il ginnasio alessanese e che ricevevano gratuitamente l’insegnamento da un maestro al quale era stato conferito un beneficio. Le relazioni «ad limina» dei vescovi alessanesi posteriori, pur ricche di notizie sull’attività pastorale e sullo stato delle parrocchie, non hanno neppure un cenno sul seminario. E quando nel 1698 il vescovo Vincenzo Della Marra (1695-1712) ritornò sull’argomento, non fece altro che ripetere tutto ciò che il Mancini aveva scritto. Nella seconda metà del ‘600 i chierici ugentini si preparavano agli ordini sacri come prescriveva il sinodo del De Martino del 1645. Il ragazzo, ammesso appena decenne allo stato ecclesiastico, cresceva e si formava nelle sagrestie della sua parrocchia ed in famiglia, dotato di un patrimonio e già vestito dell’abito clericale. Per ricevere la tonsura e gli ordini seguenti egli doveva imparare a leggere e a scrivere, apprendere il latino e a fare conti. I chierici minori e quelli in sacris dovevano trovare da sé un maestro nei paesi vicini e, secondo il sinodo, dovevano pagarlo con le franchigie che godevano sulla farina e sugli altri raccolti. Imparavano, inoltre, a cantare gli uffici divini e frequentavano le lezioni del catechismo. Dovevano, poi, dimostrarsi docili e servizievoli verso tutti i sacerdoti della parrocchia, particolarmente verso l’arciprete che avrebbe infine espresso il giudizio sulla loro condotta. Ogni domenica i chierici dovevano assistere alla intera ufficiatura corale e alla celebrazione della messa solenne nella prima e terza domenica di ogni mese e nelle feste solenni dovevano confessarsi e comunicarsi. I chierici ed i ministri dovevano svolgere il servizio liturgico secondo un turno settimanale. Un sacerdote, detto fiscale, avrebbe controllato la loro frequenza ed avrebbe riscosso le multe che, frequenti ed onerose, il sinodo aveva comminate per i negligenti nell’osservare le prescrizioni di vita riguardanti gli ecclesiastici in genere. In conclusione, la preparazione dei futuri ministri riguardava prevalentemente il comportamento esteriore e ciò che riguardava l’istruzione era lasciato alla buona volontà del singolo chierico, la sua educazione dipendeva dall’esempio che i preti gli davano e dal timore delle multe. Per tutte queste ragioni i risultati erano ben lontani da quelli desiderati dal concilio trentino.

IL TENTATIVO NON RIUSCITO DEL VESCOVO LAZARO Y TERRER.

Nei primi anni del ‘700 fu nominato vescovo ugentino il francescano Pietro Lazaro y Terrer (1705-1709), il quale tentò di utilizzare per il seminario la vistosa eredità del suo predecessore, il teatino Antonio Carafa. Questi aveva lasciato nel testamento una somma di doppie d’oro equivalenti a 3000 ducati, al Capitolo della «sua dilettissima Sposa e Chiesa Catedrale», con l’incarico di assolvere a vari legali, tra i quali un donativo per ogni parroco della diocesi, il completamento del campanile della cattedrale e l’erezione del suo tumulo sepolcrale. I canonici, accettata l’eredità, avevano messo la somma al sicuro nel monastero ugentino delle Benedettine e, compiute poi le distribuzioni stabilite dal Carafa, avevano designato un canonico e due partecipanti che attendessero alle costruzioni predette. Il Terrer, giunto in diocesi, ben presto impugnò il testamento del predecessore perché il Carafa avrebbe ottenuto surrettiziamente la facoltà di testare avendo taciuto di essere religioso e perché avrebbe violato la bolla di Innocenzo X che vietava di costituire erede il Capitolo con l’obbligo di assolvere a legati. Non gli fu difficile convincere il Capitolo e, col suo consenso, recuperò le somme già distribuite. Ma se i canonici avevano intenzione di investirle nell’acquisto di beni immobili o di darle in prestito, Terrer si era proposto di erigere un seminario. Così nel 1706 costruì alcuni ambienti nel palazzo vescovile, vi raccolse soltanto 16 giovani, i più poveri, e prepose alcuni sacerdoti alla loro formazione. Nei primi due anni la vita del seminario fu stentata, a causa — dirà egli stesso — dell’insufficienza dei mezzi economici ed in particolare della scarsità dei raccolti. Con la morte del vescovo avvenuta nell’aprile 1709, il primo esperimento di seminario fallì. Infatti il Capitolo, mai rassegnato del tutto a quella «usurpazione», fece ricorso alla Congregazione del Concilio per riottenere l’eredità del Carafa, fornire la cattedrale di suppellettile e di campane ed attuare le volontà testamentarie.

La risposta da Roma giunse nell’ottobre e fu di attendere il nuovo vescovo, la cui nomina si capì presto che sarebbe tardata, quando al Capitolo fu data la facoltà di eleggere il vicario capitolare. Il Capitolo, intanto, per sottrarre le rendite di quei beni alle richieste dei partecipanti, ripeté la richiesta alla Congregazione, accompagnata probabilmente dall’ assenso del vicario capitolare Tommaso De Rossi. La Congregazione accolse la richiesta il 5 luglio 1710. I canonici recuperarono i beni dispersi e li destinarono all’arricchimento delle prebende e degli uffici della cattedrale, mentre il completamento del campanile veniva rinviato al consenso del futuro vescovo; decisero pure di mettere all’asta i beni lasciati dal vescovo Terrer e di destinare le somme alla costruzione della nuova cattedrale. Non vi è dubbio che i capitolari si dimostrarono preoccupati innanzitutto dei propri interessi, poi della cattedrale e niente affatto dell’educazione dei giovani chierici. Nel maggio 1711, infatti, gli impazienti canonici sii spartirono le somme riscosse e similmente fecero nel marzo del 1712; soltanto ora destinarono 20 ducati all’erezione del monumento funebre del Carafa. Non si può dedurre dai verbali delle riunioni capitolari se il Capitolo, oltre il tumulo e le messe mensili, arredò la cattedrale della necessaria suppellettile e rispettò tutte le altre volontà del Carafa.

È certo che il vescovo Spinelli (1713-1718) aprì un processo contro otto canonici e contro l’ex vicario capitolare De Rossi, da lui ritenuto complice della «usurpazione» delle eredità dei due vescovi, processo del quale non si conosce né lo svolgimento e tanto meno la conclusione. Lo Spinelli lottò tenacemente e sottrasse ancora una volta i beni delle eredità Carafa e Terrer al Capitolo per destinarli alla costruzione della cattedrale. Invano i canonici presentarono la loro protesta alla Congregazione del Concilio che confermò la decisione del vescovo.

 La costruzione della nuova cattedrale allontanò nuovamente il problema del seminario per vari decenni: i lavori, iniziati nel 1718, si conclusero soltanto nel 1743 e la nuova cattedrale fu consacrata dal vescovo Ciccarelli il 30 giugno di quell’anno. L’iniziativa del vescovo Terrer rimase un fatto isolato. Bisogna riconoscergli la buona intenzione di dare alla diocesi il seminario, ma bisogna pur dire che ci sia riuscito soltanto con pregiudizio dei diritti del Capitolo, il quale, difendendoli, si mostrò di fatto scarsamente sensibile alla nobile iniziativa. Se il vescovo Terrer avesse preparato efficacemente l’ambiente ecclesiastico e avesse proceduto con mezzi legali irreprensibili, non avrebbe avuto indifferente prima, contrario poi, il Capitolo cattedrale. Se è vera la notizia del gennaio 1721 che il Capitolo fu favorevole che i beni dei Celestini di Ugento fossero messi a disposizione per la fondazione di un seminario in Alessano, bisogna riconoscere che i canonici mutarono atteggiamento verso il seminario diocesano. Ma non è certo che essi avrebbero appoggiato l’autoritario vescovo Spinelli se questi avesse preferito la sua apertura alla costruzione di una nuova cattedrale.

IL CLERO UGENTINO NEI PRIMI DECENNI DEL ‘700

Varie fonti informano sufficientemente su alcuni aspetti della situazione del clero nella prima metà del ‘700. Innanzitutto si conoscono nominativamente i 411 ecclesiastici che il vicario capitolare De Rossi segnò nello «status clericorum» di ogni parrocchia, escluse quelle di Ugento e di Gemini, nella visita pastorale del 1711. Di ciascuno egli annotò pure l’ordine, l’età, l’abilitazione alla confessione e il titolo accademico. Risulta che accanto a 225 preti vi erano solo 8 diaconi e 15 suddiaconi, mentre i chierici, tonsurati e minoristi, salivano a ben 163. La presenza degli ecclesiastici era numericamente rilevante nei paesi più abitati: Ruffano, Specchia, Salve e Presicce, oltre Ugento, tutti con oltre un migliaio di abitanti. In rapporto alla popolazione civile, quelli rappresentavano mediamente il 4,16%; il rapporto veniva superato in 6 parrocchie e raggiungeva i valori più alti in alcuni dei casali meno abitati, Lucugnano (7,98%), Torrepaduli (5,77%), Ruggiano (5,28%), scendendo al valore infimo ad Acquarica (2,18%). La concentrazione ecclesiastica nei paesi più abitati trova una spiegazione da officiare e di benefici, e conseguentemente un’intensa attività cultuale. L’elevata densità, invece, in alcuni centri minori può trovare spiegazione, non esclusivamente, nel complesso di privilegi che lo stato ecclesiastico garantiva. La documentazione circa le ordinazioni sacre nei primi due decenni del secolo non permette di rilevare la provenienza sociale ed i rapporti familiari intercorrenti tra gli ecclesiastici, ma il fatto che 67 dei 118 benefici erano di patronato di alcune famiglie, permette di affermare che non fu estranea all’origine di tante ordinazioni anche la prospettiva del godimento di quel beneficio «familiare». Le considerazioni sull’attività pastorale riguardano soltanto i 225 preti. Dalle carte risulta che vi era mediamente un prete ogni 43 – 44 abitanti nei sei paesi meno abitati, il rapporto scendeva fino al limite di 1 a 18 a Lucugnano, mentre saliva fino al limite di 1 a 91 e 95 ad Acquarica e a Supersano. Non disponendo di altri dati, si può dire che, oltre la celebrazione delle messe, pochi erano quelli che svolgevano una certa attività pastorale, per esempio quella di ascoltare le confessioni cui erano abilitati soltanto 48 preti ai quali si aggiungeva, presumibilmente, un certo numero di religiosi. Gli abilitati rappresentano il 21,33% dei preti, un confessore ogni 205 abitanti. Questi ultimi dati sono rivelatori della cultura e della bontà di questi ecclesiastici e giustificano in parte le lamentele dei vescovi. Nella suddetta visita il vicario capitolare De Rossi trovò contrasti e divisioni nel clero di Taurisano, proibì a quello di Ruffano, Supersano e Torre di andare a caccia, frequentare qualunque gioco, camminare per il paese dopo il tramonto senza lume e con armi, confermando o minacciando pene severe. A quello di Morciano impose di redigere l’inventario dei beni della parrocchia, delle confraternite e dell’ospedale per i forestieri. Approvò l’incipiente sviluppo della liturgia corale tra gli ecclesiastici di Acquarica e di Presicce e stabilì a Ruffano come punire i «partecipanti» che si assentavano. Ovunque confermò lo svolgimento delle conferenze dei casi morali, quelle liturgiche, quelle teologiche del sabato che erano state istituite dal vescovo Carafa; ma le raccomandazioni e l’obbligo della relazione mensile che doveva fare il parroco, permettono di ritenere frequenti le assenze e le irregolarità. Che in verità questi mezzi non bastassero a colmare le insufficienze formative, è facile ammetterlo anche senza accettare ad litteram le severe espressioni del vescovo Spinelli. Questi scrisse che trovò gli ecclesiastici ugentini tanto ignoranti da non conoscere la materia e la forma dei sacramenti ed i concetti essenziali della dottrina cristiana e, conseguentemente, costatò che erano «di mala vita», che alla ignoranza s’accompagna. Una conferma può trovarsi nel numero ridotto degli abilitati alle confessioni e nel numero quasi irrilevante, 4 su 261, di ecclesiastici che avevano un titolo accademico, Lo Spinelli riferì che si vide costretto a portare con sé, durante la visita alla diocesi, due padri gesuiti che predicarono ai chierici la «dottrina cristiana» e a provvedere ciascun ecclesiastico del «Catechismo» del Bellarmino. Pensò, inoltre, d’inserire tra le file del clero ecclesiastici degni provenienti da altre diocesi; ottenne che nel convento ugentino dei frati minori osservanti fossero inviati tre religiosi predicatori e un padre guardiano lettore in teologia, per affidare loro la predicazione per il popolo e, più tardi, anche l’istruzione dei chierici. Non si possono giudicare benefiche e rinnovatrici le iniziative dello Spinelli partendo dal fatto che i ventisette esaminatori sinodali nominati nel 1720, erano tutti o dottori utriusque juris o licenziati in teologia o l’uno e l’altro e che dieci di loro erano «arcipreti» della diocesi. Ci sarebbe da risolvere il problema perché soltanto otto di essi erano presenti negli elenchi compilati dal De Rossi nel 1711 e non figuravano col titolo; come pure è da avanzare qualche riserva su quei titoli che per il Doria si conseguivano con preoccupante superficialità.

Nelle prescrizioni sulla formazione dei chierici, emanate dal sinodo celebrato nel 1720 dal vicario capitolare Salzedo ci sembra di trovare nuove esigenze, propriamente spirituali, quando agli ordinandi non si chiedeva soltanto l’osservanza della disciplina ecclesiastica o il libero possesso di un patrimonio precisamente definito, ma particolarmente la retta intenzione; e quando si dichiarava necessaria la verifica se la scelta dello stato ecclesiastico fosse stata compiuta «Dei vocatione et impulsu» e «non temporali aliquo opulentis commodioris, aut liberioris vitae stimulo». Nulla di nuovo si trova nei requisiti di una vita proba e di una scienza sufficiente; ma dell’una e dell’altra si stabiliva dovessero farsi un processo informativo pubblico ed un accurato esame. Si ordinava, infine, che gli. ordinandi facessero per dieci giorni gli esercizi spirituali per provare la loro idoneità. È difficile far derivare questa avvertita esigenza d’idoneità e di rette intenzioni dalla breve esperienza che si era fatta del seminario durante l’episcopato del Terrer o dalla presenza nel clero di quegli uomini immessi dal vescovo Spinelli; né si può dire quanto fosse ispirata dallo stesso Salzedo. È certo, però, che nelle costituzioni nulla veniva stabilito sulla condotta dei chierici che continuavano ad attendere gli ordini in famiglia: non v’era nessuna prospettiva innovatrice. Riguardavano anche loro le prescrizioni generali per la vita degli ecclesiastici: il sinodo li metteva in guardia dalla lussuria, dal concubinato, dalla passione per il gioco, per la caccia, dall’avarizia, dall’ubriachezza, dalle crapule, dall’uso delle armi e dalla pratica del commercio. Tra queste norme, che da secoli si ripetevano, brilla l’esortazione a superare decisamente la mediocrità «contemptus puritatis animae, saorarum virtutum et rubricarum in colebratione missae et recitatione divini officii (…) viliori attentione et incuria absolvatur in hoc mundo, quam divinus famulatus».

Tra il 1720 e il 1747 nel clero entrarono 123 nuovi elementi e furono ordinati 78 preti. Momenti di maggiore frequenza delle ordinazioni furono gli anni di episcopato del carmelitano Francesco Battaller (1726-1735) con 56 immissioni alla tonsura e agli ordini minori, 49 al suddiaconato, 34 al diaconato, 32 al presbiterato. Di quest’ascesa numerica beneficiarono anche gli anni seguenti dei brevissimi episcopati del De Rubeis (1736-1737) e del Carmignani (1737-1739). Non si è in grado di spiegare il fenomeno con l’intervenuto incremento demografico; forse il Battaller fu largo ad ammettere agli ordini, come lascia pensare la giovane età degli ordinati preti e il suo giudizio positivo sul clero che contrasta con quello degli altri vescovi; forse si rivelarono i buoni. risultati dei provvedimenti legislativi e di altri fermenti operanti nei paesi della diocesi. Durante l’episcopato del Ciccarelli (1739-1747) le nuove ordinazioni presbiterali si mantennero ancora al buon livello di 24, ma si avvertì subito l’influsso delle restrizioni concordatarie del 1741 nella diminuzione di coloro che presero la tonsura (furono soltanto 17). Nel 1749 il vescovo Mazza contava 311 preti, 19 diaconi e suddiaconi, 113 chierici e minoristi, per una popolazione di 12.347 anime, e segnalava la presenza di 60 preti religiosi nei nove conventi della diocesi. Se il clero secolare aumentava numericamente, in confronto alla popolazione civile però scendeva a rappresentare il 3,10%, cioè -1,06% rispetto al 1711. Tuttavia, in seguito alle numerose ordinazioni presbiterali compiute nei decenni precedenti, il rapporto dei preti secolari con gli abitanti s’intensificava e la situazione era di 1 prete per 39-40 fedeli, mentre nel 1711 era di 1 prete per 43-44. Esaminando gli incartamenti degli ordinandi 45, si costata che venivano rispettate le norme sinodali del 1720, particolarmente il corso di esercizi spirituali presso il convento dei religiosi del paese o del paese più vicino. Circa la preparazione culturale si nota un impegno leggermente crescente: alle dichiarazioni di un sacerdote attestanti di aver insegnato le nozioni elementari della grammatica latina, si aggiungono anche se non per tutti, quelle attestanti la frequenza a lezioni di logica e di teologia morale. Una minuziosa ricerca ci ha dato i nomi di alcuni di quei maestri i cui attestati ricorrono frequentemente. Nei primi anni del secolo, ad Ugento vi erano Domenico Donato Sava, Francesco Antonio Rizzo che forse teneva uno «scolasticum», Guarino Romano che si titolava «pedagogus civitatis» e poi i lettori di teologia morale del convento di s. Maria de la pietà dei Francescani minori. A Ruffano abbiamo trovato Stefano Tarantino, i cui attestati ricorrono tra il 1726 e il 1736, Felice Morreri dal 1738 al 1741, Antonio Meraglia dal 1735 al 1759 e perfino nel 1771, Fabio Pelle nel 1734-1735 ed infine Domenico Margarito, dottore in teologia e lettore di teologia morale dal 1741 al 1769 46. Ad Acquarica vi furono Alfarano i cui attestati sono datati tra il 1737 e 1738, il maestro Gioacchino Giannelli negli anni 1738-1740, Pietro Stefanizzi nel 1756; più tardi, a Salve, l’arciprete Alessandro Cardone negli anni 1754-1761.

Sarebbe interessante poter ricercare scuole private e le scuole pubbliche attraverso le quali si provvide all’istruzione in questa estrema parte, di Terra d’Otranto: sono note quelle di Ruffano e Acquarica nelle quali vennero istruiti i chierici. La «Scuola pia della Madre della Misericordia» compare a Ruffano già nel 1726 ed ancora nel 1771. Il direttore era nominato dal vescovo in ‘ seguito a concorso. Dai ti toli che gli insegnanti aggiunsero alla loro firma negli attestati di studio si può dedurre che vi era un primo corso fondamentale tenuto da un grammatico, cui seguiva per i chierici un secondo con lezioni di retorica e di teologia morale, particolarmente teologia sacramentaria; lezioni di canto gregoriano venivano date dai Carmelitani di Torrepaduli. Più rare sono le notizie del «gymnasium» di Acquarica il cui maestro veniva eletto dagli eredi del fondatore ed approvato dal vescovo. Entrambe le «scuole pie» avevano buona fama tanto che le frequentavano giovani forestieri e che il vescovo Mazza le raccomandava ai ‘chierici. Qui, infatti, i giovani, non soltanto erano seguiti apprendimento delle nozioni letterarie e teologico-liturgiche, ma anche nel compimento dei doveri religiosi, nella pratica dei sacramenti e nell’educazione dell’animo. Verso la metà del secolo alcuni chierici frequentarono i ‘seminari di Nardò e di Otranto ed altri di famiglia benestante compirono gli studi a Napoli. Anche nella vicina diocesi dii Alessano non si riuscì a realizzare nulla di stabile ed organico per l’educazione dei chierici, nella prima metà del ‘700. Sembra strano che il vescovo Giovanni Giannelli (1718-1743) affermasse di non avere mezzi per erigere il seminario, quando somme considerevoli egli aveva impiegate per il santuario di Leuca interamente riedificato; non aveva torto, però, a dire che la tassazione dei benefici ecclesiastici non sarebbe stata sufficiente per la dotazione del seminario. Eppure era indispensabile provvedere all’istruzione dei chierici perché, come egli stesso scriveva, in un futuro non lontano, non si sarebbe trovato chi fosse capace di amministrare i sacramenti. Perciò egli si era industriato idi istituire delle scuole, ma non era riuscito a superare gli ostacoli oppostigli anche dalle autorità «ne reperiantur personae quae sciant legere et scribere pro dominando populo ad instar mancipiis, Deus scit et sciunt omnes qui veritatem occultare non pertimescunt». Anche il ricorso ai Cappuccini di Alessano non era possibile, sia perché condividevano la posizione conservatrice delle autorità regie sia perché non avevano chi fosse in grado di insegnare; ancora più problematico quello ai Conventuali dei quali nessuno si era presentato agli esami di abilitazione alla confessione. Il vescovo vide l’occasione di provvedere al seminario nel 1739 quando progettò di ripristinare la comunità dei Francescani osservanti a Montesardo, soppressa nel secolo precedente, e di trasferirla nel grande convento dei Conventuali di Alessano con il preciso ed esplicito impegno di attendere all’insegnamento ai chierici. Di fatto non si realizzò nulla, anche perché l’affare era non poco complesso. C’era più da sperare in una venuta dei Padri delle scuole pie, gli Scolopi, come avvenne soltanto nel 1752, soprattutto c’era da accontentarsi della scuola dei Domenicani di Tricase che poteva essere utile ai chierici dei paesi vicini. La necessità di educare questi chierici emergeva dal loro numero che, nella diocesi alessanese, era superiore a quello ugentino e che rimaneva comunque alto anche dopo le misure restrittive del concordato del 1741. All’inizio del secolo, infatti, gli ecclesiastici rappresentavano il 5,16% dell’intera popolazione. Dal rispetto delle disposizioni concordatarie era derivata la flessione del numero dei chierici e l’insieme degli ecclesiastici scendeva a rappresentare il 3,61 % nel 1744 e alcuni anni dopo, 3,42% nel 1757, divenne l’1,15% soltanto nel 1794 in seguito a più incisive disposizioni. I chierici nel 1744 erano 73, salirono a 134 nel 1757, ma scesero a 32 nel 1794; conseguentemente si evolse anche il rapporto del numero dei preti con quello degli abitanti che, da 1 a 34-35 nel 1744, divenne 1 a 46 nel 1757 senza alcun pregiudizio all’assistenza religiosa idei fedeli anche quando il processo di rarefazione clericale si avviò ed il rapporto si allentò e nel 1794 si contava 1 prete ogni 100 fedeli.

Nonostante le ripetute esortazioni della Congregazione del Concilio nel 1747 e nel 1771 53, all’indomani del grandioso progetto per la nuova cattedrale, i vescovi alessanesi non realizzarono mai il seminario. Frattanto le scuole di lettere aperte dagli Scolopi e dallo studio filosofico-teologico dei Domenicani a Tricase venivano considerati dai vescovi come mezzi suppletivi. Il vescovo d’Alessandro introdusse la prassi degli esercizi spirituali comuni prima delle ordinazioni; ma la formazione intellettuale, morale e religiosa della maggior parte dei chierici rimase sempre precaria, tanto che il vescovo Gaetano Miceli (1792-1804), l’ultimo di quelli residenziali, nella sua prima relazione ad limina riferì che durante un decennio di sede vacante erano stati dati gli ordini a molti giovani «indegni» e che perciò aveva deciso di non conferirne più per qualche tempo.

L’OPERA DEL VESCOVO TOMMASO MAZZA

Del seminario della diocesi ugentina si ritornò a parlare nel 1739 quando, il 22 novembre, Giovanni De Pandis disponeva nel testamento che alla morte del rettore del tempo, il beneficio della S. Annunziata e delle Anime purganti, sul quale egli aveva patronato, sarebbe stato aggregato «al nuovo seminario da farsi». Non sappiamo precisamente chi fosse questo De Pandis, nel quale non si era cancellato il ricordo del vescovo Terrer e delle tristi vicende della sua eredità. È certo, però, che la donazione si collocava nei decenni posteriori alla costituzione «Creditae nobis» del 9 maggio 1725, con la quale Benedetto XIII aveva sollecitato i vescovi ad attuare le disposizioni trentine ed istituiva la Congregazione dei seminari per controllarne l’operato e sostenerne l’impegno; in questi anni non pochi seminari diocesani furono finalmente istituiti.

Il mancato assenso regio alla fondazione di un monastero dei Minimi in Ugento, nel 1740, facilitò in seguito la fondazione del seminario e l’educazione dei chierici. Quest’ultima era, anche nelle prospettive dell’impeto riformistico che animava in quegli anni da legislazione di Carlo III e trovò completa ed organica conferma nel concordato con il nuovo papa Benedetto XIV nel 1741. Limitate, infatti, le immunità reali, locali e personali degli ecclesiastici, il concordato confermava le franchigie in favore dei seminari, precisamente, degli alunni, dei chierici in sacris, dei sacerdoti e degli inservienti; fissava poi dei requisiti per l’ammissione agli ordini sacri con la dichiarata finalità di «moderare (…) il numero degli ecclesiastici». D’ora innanzi nessuno avrebbe ricevuto la tonsura se non fosse titolare di un beneficio le cui rendite nette ascendessero alla metà della tassa stabilita per il patrimonio sacro, ovvero godesse di una pensione equivalente o avesse l’intero patrimonio costituito da beni immobili con rendite annue non inferiori a 24 ducati né superiori a 40.

Nessuno, inoltre, sarebbe diventato chierico prima dei 13 anni e senza aver frequentato qualche seminario o convitto ecclesiastico (ove non fosse possibile), senza aver portato l’abito clericale per un triennio. Doveva comunque far mostra della buona indole mediante la pratica dei sacramenti ed il servizio liturgico prestato presso qualche chiesa indicatagli dal vescovo. Dopo la tonsura tutti i chierici dovevano «applicarsi così allo studio, come alle opere di pietà», continuando a dimorare in seminario o collegio o frequentando un’università o altra scuola, ovvero prestando ogni anno il servizio liturgico presso la chiesa indicata dal vescovo. La bontà della, condotta sarebbe stata attestata dai superiori del seminario ovvero dai parroci e rettori delle chiese; il profitto negli studi sarebbe stato dichiarato dai maestri. Tutte queste dichiarazioni avrebbero assicurato l’inserimento nell’elenco dei chierici e ordinandi in sacris nella sagrestia della cattedrale e quindi il godimento dei privilegi propri dello stato ecclesiastico.

Il concordato riecheggiava in qualche modo le preoccupazioni che papa Lambertini aveva espresso appena dopo l’elezione, nell’enciclica a tutti i vescovi del 3 dicembre 1740, nella quale richiamava l’attenzione sull’istituzione idei seminari e sull’educazione dei chierici. D’altra parte per i vescovi delle diocesi ancora sfornite, il rispetto delle norme concordatarie per le ordinazioni, costituì un rimedio valido, sebbene provvisorio, come avevano ammesso il vescovo alessanese D’Alessandro e quello ugentino Ciccarelli.

La Congregazione del Concilio, nella risposta alla relazione triennale, sollecitò nel 1741 il Ciccarelli a provvedere tutti i mezzi che gli suggerivano il Trentino e la costituzione di Benedetto XIII. Ma gli ostacoli, frappostigli nel governo episcopale, fiaccarono la sua resistenza sicché, dopo aver portato a termine la costruzione della cattedrale, non procedette ad altra opera e, fatta rinunzia alla diocesi e ritiratosi a Napoli, vi morì il 1° maggio 1747.

Per il seminario s’impegnò decisamente il successore Tommaso Mazza (1747-1768) e la sua istituzione fu certamente l’opera maggiore del lungo episcopato. Constatato innanzitutto che gli ecclesiastici non erano tutti in pessime condizioni, come d’altra parte aveva giudicato lo stesso Ciccarelli, egli placò gli animi ed eliminò le divisioni createsi negli ultimi anni. Ben presto si mise a cercare de rendite di cui dotare il seminario e trovò un chierico coniugato ugentino, Giovanni Carlo Papadia che invano aveva tentato di ottenere il regio assenso alla costruzione in Ugento di un convento peri Minimi fra i quali era entrato l’unico figlio, Agostino. Il Papadia, «charitate motus», alla fine del luglio 1747, «rationabiliter» revocò la donazione dei suoi bene ai Minimi e la convertì alla mensa vescovile perché «si erigesse un seminario nel quale si educassero li giovani poveri di essa Città e Diocesi». Il vescovo avrebbe proceduto certamente all’erezione giuridica dell’istituto, tenuto conto che in un avvenire non lontano la dote sarebbe stata accresciuta della donazione fatta da Giovanni De Pandis nel 1739, ma i Minimi della provincia pugliese si appellarono al re per difendere il possesso dei beni del Papadia. Al re, frattanto, pervennero la supplica del Capitolo cattedrale e del clero delle parrocchie, e quella delle autorità civili e dei baroni della diocesi, per far rilevare quanto sarebbe stato «di maggiore e più universale giovamento l’erezione di un seminario per educare li fanciulli poveri di tutta la diocesi». La controversia fu portata alla Consulta della Real Camera di s. Chiara e, tra una «inibitoria» e l’altra dei regi consiglieri, quei religiosi che assistevano il vecchio Papadia nell’ultima malattia, ottennero con arte la revoca della donazione al seminario, a quindici giorni dalla morte che lo colse l’8 maggio 1748. Lo zelo del vescovo trovò frattanto corrispondenza nella generosità di un prete di Acquarica, Domenico Antonio Panico. che il 19 giugno 1751 donò oliveti e vigneti; con la donazione il seminario poteva disporre di una dote, piccola ma sicura.

Il Mazza, considerando l’eventualità di una conclusione negativa della lite con i Minimi, propose doro un compromesso, purché essi affrettassero i tempi aprendo anche in Ugento una scuola come quella di Ruffano e di Acquarica. La controversia si concluse quando le parti, convinte dalla necessità di «grandi spese» connesse con tutte le cause e dall’ineluttabilità «disturbi et altre contrarietà che seco porta il litigare», giunsero ad un accordo l’8 maggio 1752. Convinse tutti la considerazione «che tutta questa roba [del Papadia], essendo stata l’unica intenzione dei donanti, di consacrarla a cause pie, o che si ‘converta in uno, o che in altro uso, sempre però si considera come robba offerta a Dio per bene del prossimo». La mensa lasciava ai Minimi di Gagliano, fra i quali vi era fra Agostino Papadia, il possesso dei beni rinunziando ad ogni pretesa; questi avrebbero pagato al vescovo Mazza 2000 ducati. Rincuorato dal successo, nell’agosto il Mazza prese in affitto per quattro anni il palazzo di Francesco Vitale, sito nella strada di san Giacomo, non lontano dalla cattedrale, assunse un maestro di grammatica, che avrebbe dovuto convivere con i chierici ed avrebbe ricevuto lo stipendio di 70 ducati. A metà novembre l’ultimo rettore del legato De Pandis venne a morire ed i beni del beneficio della s. Annunziata e Anime purganti divennero di piena e libera proprietà del seminario. Tommaso Mazza, appena apprese la notizia nella residenza estiva di Ruggiano, presso il santuario di s. Marina, il 22 novembre 1752 procedette all’erezione canonica dell’istituto, per il quale, come dice il decreto, «per sex fere annos post susceptum pastorale munus, maiori qua potuimus, sollicitudine et cura conati sumus coram Deo et hominibus». Si stabilì che la dote era costituita dalle tre donazioni del Papadia, del Panico e del De Pandis e dalle tassazioni sui benefici ecclesiastici; si affidava la Formazione dei giovani all’arciprete della cattedrale ugentina, Stefano Palese, che diveniva il primo rettore; s’indicava, infine, un sommario programma d’istruzione scolastica, con grammatica, canto gregoriano, sacra scrittura, scienze ecclesiastiche, che il vescovo avrebbe ampliato. Il vescovo sottoscrisse il decreto affermando che il Signore l’aveva destinato benevolmente, a preferenza dei suoi predecessori, a realizzare quell’opera.

Il decreto, che alle ore 14 del 23 novembre fu affisso solennemente alle porte della cattedrale ugentina dal cancelliere alla presenza di due canonici, fornì all’unica erede della famiglia De Pandis, Francesca, il motivo per rivendicare il diritto di presentare un nuovo rettore del beneficio suddetto dell’Annunziata e delle Anime purganti.  Fu l’ultimo ostacolo che fece rinviare l’apertura. Il vescovo Mazza non si perse d’animo per la causa che si svolgeva presso il Tribunale ecclesiastico di Napoli. Dalla Regia Camera di S. Chiara, anzi, il 9 febbraio 1753, ottenne trasferimento della lite presso la Segnatura Apostolica. In realtà, fu la Congregazione del Concilio ad esaminare la questione nel settembre 1754 e a dare definitiva conferma alla legittima unione di quel beneficio al seminario, nella riunione del 24 dicembre dello stesso anno. Frattanto il Capitolo aveva nomina to l’arcidiacono Marco Antonio Macrì come suo deputato per il seminario a fine agosto 1753; due mesi dopo i Minimi di Gagliano avevano versato un acconto, di 1200 ducati.

Sull’organizzazione interna e sull’attività del seminario non si hanno notizie così precise e numerose come per le vicende ricostruite. Non si sa, infatti, quando realmente l’istituto accolse per la prima volta i chierici: probabilmente avvenne nell’autunno 1754. Gli alunni non furono molti: «certuni (…) puerorum numerum», dichiarò lo stesso Mazza, il quale non riuscì a farlo frequentare come desidera va. È certo, ad esempio, che i chierici di Ruffiano non vennero mai ad Ugento preferendo la notata scuola del luogo: su 90 ordinati in tutto il secolo, soltanto 8 compirono gli studi in seminari vari, uno soltanto ad Ugento. Né valsero le misure adottate allo scopo, se può essere interpretato in tal senso il fatto che nel 1755 il vescovo non conferì nessun ordine ecclesiastico. Probabilmente neppure il vescovo pensò di farlo frequentare da coloro che erano già avviati, ma soltanto da coloro che iniziavano («pueri») la vita ecclesiastica. I quali, in verità, non furono pochi negli anni del Mazza, in numero chiaramente superiore, più che triplo in confronto ai 17 del vescovo Ciccarelli, quasi doppio in confronto ai 34 del vescovo Durante (1768-1781). Non si conoscono neppure quali regolamenti furono dati; il rettore, al quale era stata affidata l’educazione dei giovani, fu ben presto coadiuvato da un vicerettore. Circa la formazione intellettuale si conoscono più gli insegnanti che i programmi delle lezioni. Alla formazione umanistica fu preposto quasi esclusivamente il sacerdote Francesco Spedicati tra gli anni 1758-1766; quella teologica, che fu prevalentemente morale, insegnò prima il canonico penitenziere Angelo Puzzello, tra il 1755 e il 1760, poi il guardiano del locale convento dei Francescani, p. Saverio da Melendugno, tra il 1763 e il 1771.

Si conosce qualcosa dell’amministrazione, dal 1756 diretta dal canonico Domenico Fiorino, procuratore. Egli recuperò il reale possesso dei beni dotali e si preoccupò di mettere a frutto, nella maniera più redditizia le somme riscosse. Spesso egli anticipò le somme necessarie per la spesa corrente che, aula fine del novembre 1767, ammontavano a 885 ducati. I bilanci si chiusero in passivo e il vescovo Mazza si preoccupò vivamente di un’eventuale chiusura. Alla fine del decennio di amministrazione Fiorino, ancora una volta questi intervenne e, «per l’amore che dice di portare e porta al Seminario predetto», colmò tutto il passivo e restituì al procuratore de somme anticipate. Fu l’ultimo suo gesto munifico perché appena, due mesi dopo, il 25 gennaio 1768, fu trasferito a Castellammare di Stabia. Non si può affermare che il seminario diocesano svolse subito un’efficace azione rinnovatrice della cultura, della condotta e dell’azione pastorale del clero di cui il Mazza notava i segni già nel 1756. Egli scrisse che in tutta la diocesi la disciplina ecclesiastica era osservata e che gli ecclesiastici «expulsa primaevae ignorantiae caligine assiduis exercitiis, quasi nova sidera» illuminavano il popolo con la loro vita e con una migliore predicazione catechetica. Ciò derivava, forse, dalle conferenze di teologia morale che impose al clero di ogni paese e, ancor di più, dall’atteggiamento nel conferire gli ordini sacri che determinò una necessaria selezione dei candidati. Si calcola, infatti, che, a partire dal 1750, il numero coloro che furono ordinati preti calò sensibilmente, da 35 del ventennio precedente a soli 15 fino al 1759. A Ruffano, paese tradizionalmente ricco di chierici, furono ordinati solo 4 preti in un ventennio, a differenza dei 29 del trentennio precedente; a Lucugnano e a Specchia non vi furono nuovi preti per un quarantennio e un cinquantennio. D’altra parte, chierici che usufruirono di un corso di studi regolare come convittori in seminario furono sempre, una ristretta minoranza che non superò mai il terzo degli ordinati; quindi l’istruzione filosofica elementare e quella teologica raggiunsero solo una minima parte di loro. Il seminario mancò a lungo di una sede capace ad accogliere i giovani provenienti dalla diocesi. La ricevette nel secolo seguente, prima nell’ex convento delle Benedettine, poi nell’edificio costruito da mons. Francesco Bruni (1837-1863). Ebbe, inoltre, una vita economica difficile a causa delle pretese avanzate sui suoi beni; continuò ad essere scarsamente frequentato dai giovani, che, scoraggiati dalle ulteriori disposizioni di Ferdinando IV negli anni ’70, diminuirono ancor più. Gli avvenimenti politici di fine secolo e le lunghe vacanze della sede ne determinarono addirittura la chiusura. Perciò non era da connettersi con l’opera da lui realizzata quella trasformazione del clero notata dal vescovo Mazza, come lo sarebbe stato in un lontano avvenire del quale egli mise da prima pietra.