CULTO DEL BASSO SALENTO:
S. VINCENZO NELLA DIOCESI DI UGENTO
di Mons. Salvatore Palese
Nella piazza antistante la cattedrale di Ugento, al centro, s’innalza la statua marmorea di s. Vincenzo, l’ultimo segno di attenzione espresso al santo patrono della città: la vollero gli ugentini, come dice l’epigrafe, il 22 gennaio I 948 “auspicando protezione alla ricostruzione materiale e spirituale della patria”, al tempo del vescovo Giuseppe Ruotolo ( 1937- 1968) e la fecero realizzare dal noto scultore molfettese Giuseppe Cozzoli.
Chi entra, poi, nella cattedrale che è la ecclesia mater della intera diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca, vede in alto, di fronte, la grande tela dei santi attornianti Maria assunta in cielo, cui è dedicata la grande chiesa, e tra i santi, in primo luogo vede s. Vincenzo diacono e martire. Questa grande tela absidale fu voluta dallo stesso vescovo che la chiese al pittore Corrado Mezzana nel 1944, quando completò i lavori di restauro dei primi anni ’40, nel primo periodo del suo episcopato. E si sa che il vescovo Ruotolo in quegli anni riesumò quasi la memoria storica della diocesi dalla disattenzione e dalla dimenticanza.
Nella cattedrale che fu completata nel 1742 e dedicata il 30 giugno 1795, l’altare adiacente il presbiterio, il primo, è dedicato al santo patrono. Lo fece erigere nel 1832 il vescovo cappuccino fr. Angelico de Mestria che si fece seppellire di fronte, quattro anni dopo, ad onore e gloria del Signore e del suo santo testimone, protettore della città, come si legge sull’epigrafe marmorea che domina l’intera orchestra dell’altare in pietra leccese; nella nicchia centrale c’è la statua del santo di cartapesta, che probabilmente risale allo stesso periodo.
Il successore Francesco Bruni (1837-1863), dei signori della Missione, fece costruire un grandioso reliquiario per la più grande reliquia conservata ad Ugento, una incredibile parte di mascella con tre denti. Ma certamente più prezioso è il reliquiario che mandò in dono da Napoli l’arcivescovo-vescovo domenicano Arcangelo Maria Ciccarelli ( 1739-1747) il primo ottobre 1745: piccolo ed elegante, della migliore scuola napoletana.
Ed un altro vescovo, il molfettese Giuseppe Corrado Pansini, quarant’anni dopo, nel 1794, donò la statua lignea, a mezzo busto, per disobbligarsi della guarigione ottenuta (“pro rehabita valetudine”); quella che è situata nella nicchia dell’altare del Sacramento, con la sovrascritta “Nolite ti mere eos qui occidunt corpus” (Math. 10) e che il recente restauro di A. Malecore da Lecce, nel 1991, ha restituito alla sua primitiva bellezza.
Questa statua viene intronizzata solennemente sull’altare maggiore, tra panneggi sovrabbondanti, di colore rosso, nella solenne novena di gennaio, e poi viene portata in processione per le vie cittadine la sera della vigilia: dopo i vespri della festa che ricorre il 22 gennaio.
In questa festa, per molto tempo e per antichissima consuetudine, gli arcipreti ed i preti dei singoli paesi convenivano, ogni anno, nella chiesa cattedrale per esprimere reverenza ed obbedienza al vescovo. Lo stesso rito veniva ripetuto nella terza domenica di maggio, quando si celebrava solennemente la dedicazione della chiesa maggiore della diocesi. Lo attesta il vescovo Girolamo Di Martino nella relazione ad Limina del 1644.
Ad un certo punto e non si sa per quale ragione, questa tradizione fu interrotta. Perciò il vescovo Francesco Bruni (1837-1863) volle ripristinarla e, tenuto conto che la festa di s. Vincenzo ricorre nel cuore dell’inverno, la trasferì alla prima o seconda domenica dopo la Pasqua. Nel sinodo diocesano dell’agosto 1858 stabilì che il rito dell’obbedienza degli arcipreti e dei parroci della diocesi doveva farsi nel giorno della dedicazione della cattedrale che venne fissata alla seconda domenica di luglio. Dall’obbligo erano dispensati soltanto i parroci e gli arcipreti ottuagenari i quali, però, dovevano farsi rappresentare da un prete del loro luogo, non da un altro parroco vicino. Non si sa quanto sia durata l’osservanza ripristinata dal vescovo Bruni: un ricordo di essa, ma con altro significato, si è conservata all’ingresso dei nuovi vescovi e riguarda tutti gli ecclesiastici.
In seguito al rilancio di questo rito, nel corso dell’Ottocento si è definita ulteriormente la tradizione liturgica propria della diocesi, rifondata quasi dalla bolla di Pio VII del 28 giugno 1818. Tale tradizione fu espressa dal Capitolo della cattedrale e trovò definizione nella costituzioni del 1932 .
Per la festa del 22 gennaio e per la commemorazione del “patrocinio” di s. Vincenzo, fu fissata l’ufficiatura e confermata la messa proprio in onore del levita e martire, patrono principale della diocesi. Dell’uno e dell’altro testo, negli anni ’50 del nostro secolo, don Francesco Orlando, docente di lettere classiche e moderne nel seminario diocesano minore, per lunghi decenni, fece un’accurata traduzione italiana che fu largamente diffusa. L’ultima definizione dei testi liturgici, in latino, fu approvata dalla romana Congregazione dei riti il 9 maggio 1963, e la traduzione dei testi per la celebrazione della s. Messa fu pure approvata dalla Sede Apostolica il 20 settembre 1966.
Nella solennità del 22 gennaio, alle celebrazioni liturgiche si affianca la rappresentazione che da anni si ripete: fantasia e passione, tradizione e devozione si intrecciano in onore di questo santo venuto da lontano .
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Ed a proposito di testimonianze ugentine, va ricordato, infine, che fino a cinquant’anni or sono nella cattedrale si ammirava pure una grande tela del martirio di s. Vincenzo, forse la più grande: era sulla grande parete del presbiterio tra due finestre. Poi nel 1944 fu rimossa per lasciar posto a quella più grande del Mezzana, come si è detto, e fu sistemata lungo la navata, sulla parete che fronteggia l’organo grande. Ma ora non c’è più. Portata via per i lavori di restauro della cattedrale, agli inizi degli anni ’50, fu arrotolata e messa in deposito nel palazzo vescovile, in attesa di un probabile quanto necessario restauro della tela e della sua cornice lignea. Poi, durante la sistemazione dei locali per l’attuale curia vescovile, agli inizi degli anni ’70, i domestici, ignari di tutto, la gettarono tra i rifiuti cui diedero fuoco, in un momento di assenza dei responsabili. Al dire di mons. Ruotolo, era il “quadro cinquecentesco di s. Vincenzo, che apparteneva alla cattedrale precedente all’attuale”.
Nelle vicinanze di Ugento, a Gemini che è sua frazione, c’è una interessante rappresentazione lapidea del martirio di s. Vincenzo: è la più antica delle nostre parti. Si trova nel capitello sormontato dalla croce, al vertice di una stele, all’ingresso settentrionale della suddetta località, che il vescovo ugentino, il mercedario spagnolo Ludovico Ximenes (1627-1636) fece erigere e dedicò il 29 gennaio 1636. Il martirio di Vincenzo è messo accanto a quello di s. Lorenzo raffigurato anch’esso sul capitello, entrambi diaconi e martiri. Come si legge nell’epigrafe da me segnalata agli inizi degli anni ’70 e pubblicata da Francesco Corvaglia nel 1976, si apprende che s. Vincenzo era patrono pure del feudo di Gemini e di quello di Pompignano che appartenevano ai vescovi ugentini; inoltre, il vescovo committente, lo Ximenez, era nativo di Huesca in Aragona, dove era nato pure il martire e lo rendeva suo particolare devoto.
Nel territorio diocesano due parrocchie sono intitolate al santo: quella cli Arigliano e quella cli Miggiano. Probabilmente egli fu il titolare fin dalle loro origini. La prima attestazione di questa titolarità sono quelle che si trovano in testa ai più antichi libri parrocchiali.
Ad Arigliano, che fino al 1818 apparteneva alla diocesi di Alessano, la chiesa parrocchiale fu costruita nel sec. XVII. ln testa al più antico libro dei battesimi che incomincia dal 1623 il santo viene espressamente nominato come titolare della parrocchia e un visitatore apostolico, il vescovo venosino Andrea Perbenedetti, vide sull’altare maggiore una “nuova icona” e lo annotò il 24 (o 26) gennaio 1628. L’immagine di s. Vincenzo fu posta anche su una campana del 1709. Di recente, nel 1995 è stata situata una statua lapidea del protettore, in una piccola villetta comunale.
A Miggiano, secondo mons. Ruotolo, la chiesa parrocchiale risale alla metà del sec. XVI, ma l’attestazione prima della protezione di s. Vincenzo è in testa ai libri dei battezzati, dei matrimoni e dei morti che cominciano dal 1641. Settant’anni dopo, nel novembre 1711, il vicario capitolare Tommaso de Rossi annotò nei verbali della visita pastorale che sull’altare maggiore della chiesa matrice vi era una grande tela del santo “quod est nomen ecclesia”.
Un’ultima testimonianza del culto vincenziano nel territorio della diocesi ugentina è quella conservata ancor oggi nella chiesa parrocchiale di Supersano dove è la tela del santo in gloria, attribuita a Nicola Malinconico, del sec. XVIII.
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Su Vincenzo, diacono di Saragozza, nativo di Huesca, la documentazione è abbondante ed antica, di ogni genere, letteraria, liturgica ed artistica, come i repertori agiografici più moderni la descrivono puntualmente. Si tratta, infatti, di uno dei martiri di quella provincia romana che ebbe il più splendido culto si dai tempi più remoti. Paolino da Nola, agli inizi del sec. V, lo ricordava trai più illustri maestri della parola dell’antichità cristiana occidentale, e il grande poeta Prudenzio nel 405 ca. gli dedicò cinquecentosettantacinque versi dell’inno V del suo Peristephanon, esaltandone la gloriosa testimonianza di fede durante la persecuzione di Diocleziano, un secolo prima.
Di famiglia consolare, Vincenzo, fu affidato a Valerio di Saragozza che lo educò e poi lo fece suo diacono e quasi primo collaboratore per quanto riguardava l’assistenza alle vedove, agli orfani e agli infermi di quella Chiesa e infine la predicazione evangelica. Arrestato durante la persecuzione di Diocleziano agli inizi del sec. IV, e portato a Valencia, lì fu processato e tormentato in vari modi; resistette nella fedeltà al suo Signore, inutilmente lusingato, e quindi giustiziato.
La prima narrazione del suo martirio fu redatta prima del 386 e ne seguì una mezza dozzina, tanto cominciò a diffondersi il culto della memoria della sua testimonianza cristiana.
Ad esempio, in Spagna gli furono dedicate una basilica a Toledo (sec. V), quella di Siviglia distrutta nel 428, quella cli Granada consacrata alla fine del secolo seguente. Ma pure in Francia gli furono dedicate delle basiliche negli stessi secoli. Le sue reliquie si diffusero di pari passo: la principale era la tunica del martire pervenuta a Saragozza. Alla metà del sec. IV il nome del diacono martire spagnolo fu inserito nel calendario liturgico di Cartagine al 22 gennaio, poi, alla metà del secolo seguente in quello di Paolino Silvio e infine nel Martirologio Gerominiano del VI secolo: e quindi in tutti i martirologi storici più importanti.
La Spagna e l’Africa romana furono i primi epicentri del culto a Vincenzo. Ad Ippona, il 22 gennaio, il grande vescovo Agostino faceva leggere la passio e poi teneva il discorso. Di questi sermoni sono pervenuti cinque, tenuti negli anni intorno al 410, come li seguiamo nella raccolta recente, con traduzione italiana.
Il primo, il vescovo ipponese lo tenne il 22 gennaio del 410 “in località imprecisata”. Ai fedeli che “in piedi” avevano ascoltato la “lunga lettura” della passio, “quasi soffrendo insieme con il martire”, Agostino, al calar del giorno “fattosi breve” sottolineò il tratta saliente che emergeva dalla narrazione: “Vincenzo” vincitore sempre”. E continuò: “Vince a parole, vince nei tormenti, vince nella confessione , vince nella tribolazione, vince quando è arso dal fuoco, vince quando è sommerso nelle acque, vince infine nella tortura, vince da morto”.
L’anno seguente, il vescovo di Ippona mise in rilievo la fortezza di Vincenzo nel rendere la testimonianza della sua fede in Cristo. Questi gli aveva dato l’aiuto necessario; il diavolo era stato umiliato; il Creatore aveva onorato il suo corpo, come quello dei suoi testimoni, con i miracoli che al suo contatto si operavano.
II terzo discorso, quelle del 412, si allarga alquanto. Dopo la lettura della passio, Agostino sottolineò che la forza ciel martire proveniva da Cristo che era presente in lui e lo rendeva pacato e sereno nel parlare durante le prove . Esse si risolsero a danno dei persecutori e di Daciano, prefetto della provincia; per Vincenzo, invece, produssero glorificazione.
Il discorso dell’anno seguente o del 415, come è detto, tenuto nella basilica restituita, forse a Cartagine, è il più ampio. L’attenzione di Agostino è concentrata sull’onore che Dio dà ai corpi dei testimoni fedeli fino alla morte. Essi sono affidati alla comunità cristiana perché siano di richiamo alla preghiera dei cristiani. I martiri hanno cura del loro corpo, evitando di risparmiarlo, preoccupati della gloria eterna anche al corpo riservato. “E chi potrà rendere a parole quale sarà alla resurrezione la gloria cli questo corpo?” In questa vita il corpo grava sempre come un peso, “va a rilento ed è grave/…/ quando sarà diventato spirituale il corpo dopo Ia resurrezione/ non ci sarà in esso peso, paura, stanchezza, e resistenza. Quale sarà la velocità dei corpi celesti? la loro prontezza? È temerario presumere descrivere questo di cui non si ha esperienza. Il nostro corpo risorgerà come “in un batter d’occhio e sarà “rinnovellato”. Quali saremo lo conosceremo quando sarà vero per noi”. Ma “prima di esserlo, non ci arroghiamo una possibilità che ci manca perché non avvenga di esserne esclusi”. Come vedremo Dio? dove lo vedremo se non si può relegare in un luogo? “Teniamo per certo che il corpo sarà spirituale, non animale come Io è al presente /… l’aspetto del nostro corpo sarà quello che Cristo ha mostrato o ha promesso nel segreto”. Dio sarà visto in una maniera che non è facilmente descrivibile perché egli non ha un corpo raggiungibile dai nostri occhi umani. Cercheremo il suo volto e ne godremo della consolazione che salva , ma rimarrà sempre inafferrabile in tutta la sua ricchezza di vitalità”. Cristo salvatore sarà veduto nella divinità con gli occhi del cuore pieni di Dio, nella sua umanità con gli occhi ciel corpo eia coloro che si troveranno alla sua destra e destinati al regno , dei cieli. Come a Simone sulla terra Cristo si fece vedere, così si farà vedere da coloro che da lui saranno giudicati giusti dopo la resurrezione. “Rimaniamo saldamente ancorati a questa certezza”. Come si vede, l’ascolto della passio di Vincenzo diede al grande maestro l’occasione di trattare della condizione del corpo reso spirituale dopo la resurrezione e della sua possibilità di vedere Dio.
L’ultimo discorso pervenuto, il quinto, tenuto sempre “in natale sancti Vincentii” il 22 gennaio di un anno non detto, ma vicino a quelli indicati per gli altri, è concentrata sulla carità suscitata negli ascoltatori dalla testimonianza della fede resa dal diacono tra prove e tormenti. Dio, a Vincenzo come a tutti i martiri, donò sapienza e pazienza, fortezza e fedeltà. “Cristo ordina di celebrare con solennità la passione di Vincenzo martire singolarmente invitta e gloriosa di illustrarla con diligenza”. Come è stato rilevato, la causa della straordinaria propagazione del culto del santo martire si deve in gran parte al bellissimo con testo interno della passio, vivacemente messo in versi, nel 405, da quel grande poeta, il massimo dell’antichità cristiana latina, che fu Prudenzio di Calahorra. Gli interrogatori ed i supplizi sono imperniati sui due protagonisti, il diacono Vincenzo e il prefetto Daciano, e il tema della vittoria del martire e della sconfitta dei persecutori anima le centinaia di versi dell’inno contenuto nel V libro del Peristephanon.
Vincenzo, “levita della sacra tribù, ministro dell’altare di Dio , una fra le sette lattee colonne” è di fronte al “carnefice” , “satellite dell’idolo”, “l’empio giudice dalla bocca maligna sibilante parole serpentine”, come “vitello” che “il lupo insidioso sta per addentare”. Il “soldato di Cristo” di fronte all’”artefice di supplizi” afferma convinto e forte: “C’è un altro qui dentro, che nessuno può violare, libero, quieto, intatto, immune dai tristi dolori”; e il luogo del supplizio diventa “palestra della gloria”, “la speranza e la crudeltà sono in lotta”, dice il poeta, “e insieme si sfidano a gara il carnefice e il martire” . La lotta, in verità, è tra Cristo e il diavolo: “Cristo distrugge gl’ingegnosi trovati di Belzebù” e nelle tenebre del carcere dove quel cristiano è gettato ormai esangue, sfolgora uno splendore di luce, “Vincenzo riconosce che giunge l’oggetto della sua speranza, il premio di tante fatiche, Cristo donatore di luce” ed uno degli angeli proclama l’eroe vincitore della stessa vittoria della croce di Cristo. La lotta continua tra il “cupo pretore” e “implacabile tiranno” e il corpo del santo; esposto questo alle fiere e agli uccelli non osano questi toccare quel “trofeo di gloria”, portato al largo e gettato in fondo al mare, legato a gran masso galleggia e “in pace accoglie la terra quel corpo a lei ritornato”.
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Come il culto di san Vincenzo, martire della chiesa di Saragozza, degli anni a cavallo tra il III e il IV secolo, sia giunto in questo Salento estremo, noi non lo sappiamo ancora con precisione. Non conosciamo i percorsi reali attraverso i quali la memoria di quel santo diacono sia pervenuta in questa Chiesa episcopale, ancor prima che questa provincia di Terra d’Otranto, insieme con tutto il Mezzogiorno, venisse a far parte del viceregno spagnolo, come possono far pensare le date delle testimonianze riferite.
Un dato è certo. Già nel sec. XIII è attestato il legame del santo spagnolo alla città ugentina. André Jacob, ben noto studioso di antichità bizantine del Salento, ha edito una nota datata al 20 settembre 1292, posta al f. 128v del codice greco Vallicelianus C 7, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Si riferisce ivi che Giovanni della chiesa di santa Parasceve fu ordinato prete, al tempo del vescovo Giovanni Rufulo, nella chiesa “di san Vincenzo di Ugento, nel sabato delle quattro tempora di settembre”. È questa la testimonianza più antica e la prima che conosciamo, del culto al santo martire spagnolo. Ma non sappiamo quando gli fu dedicata la chiesa, probabilmente divenuta chiesa cattedrale nel sec. XII.
Un altro dato è pure certo. Nel 1283 Giovanni di Ugento, signore del casale attualmente chiamato di Celsorizzo, fondò la cappella di s. Nicola, dentro le torri fortificate che ancora dominano la campagna alla periferia di nord-ovest di Acquarica del Capo, a circa 9 chilometri da Ugento. Nell’ampio repertorio iconografico che orna tutti i muri della cappella, la cui importanza storica è stata rilevata da Michel Berger ed André Jacob, compare il nome Vincenzo, scritto con caratteri latini di colore bianco sul fondo azzurro, a sinistra, accanto all’attuale ingresso meridionale. Quel nome ancor leggibile è tutto ciò che rimane dell’immagine del santo diacono. La testimonianza ci permette di pensare che, verosimilmente, Giovanni di Ugento volle far figurare nella cappella del suo casale, anche il santo titolare della chiesa cattedrale e conferma, quindi, la notizia conservata nel suddetto codice greco, di qualche anno posteriore, circa la presenza del culto vincenziano nel territorio, nel sec. XIII.
Del resto, questo culto era diffuso in Italia prima del Mille, come ha rilevato Victor Saxer e un’irradiazione notevole nelle regioni meridionali esercitò, durante i secoli altomedievali, il monastero di s. Vincenzo al Volturno, nel Molise, fondato agli inizi del sec. VIII, saccheggiato dai Saraceni nell’881, affermatosi di nuovo e spogliato dei suoi beni dai Normanni alla metà del sec. XI e inserito nella riorganizzazione dei territori occupati. Ma non sono registrate attestazioni precedenti al sec. XI che riguardano il culto di s. Vincenzo in questa provincia e quelle del monastero è un riferimento molto lontano per connetterlo con il culto ugentino, nell’estremo Salento.
Pertanto rimane ancora ignota la via per la quale il martire spagnolo fu conosciuto nella diocesi ugentina e prescelto a titolare della cattedrale ugentina.
Si conosce, tuttavia, l’antroponimo Vincenzo che si trova in una iscrizione della cripta di Carpignano, databile alla prima metà dell’XI secolo: è la notizia più antica, collocata a qualche decina di chilometri da Ugento. Si sa, poi, che una reliquia di s. Vincenzo fu trasferita a Bari, al tempo dell’arcivescovo Elia (1089- 1115): ma da lì non si diffuse nessun culto. Una cripta rupestre intitolata a s. Vincenzo è ricordata nei pressi di Montescaglioso in provincia di Matera e un santo diacono Vincenzo è rappresentato nella cripta dei santi Pietro e Paolo a Matera in Basilicata; un’altra raffigurazione si conserva nella cripta di s. Nicola a Faggiano, in Provincia di Taranto, sia pure di incerta interpretazione.
Posteriori alla prima testimonianza ugentina del 1292 e a quella di Celsorizzo. ma non di scarso interesse, sono le notizie del culto al nostro santo in altri luoghi di Terra d’Otranto. Non molto lontano, a Nardò vi era una chiesetta intitolata ai santi Vincenzo e Anastasio, come riferiscono gli atti della visita del 1452-1460 e quelli della seguente del 1500- 1511. A Melpignano vi era la chiesa “S.ti Vincentii”, come attestato negli atti della visita del 1522. Questi sono i luoghi di culto più vicini ad Ugento, che si conoscono finora, oltre quelli ciel suo territorio diocesano.
È certo, infine, come ricordano Berger e Jacob, che il culto al nostro santo nella Chiesa bizantina è antico. Nel Sinassario della Chiesa costantinopolitana sono riportati i testi per la festa del 22 gennaio e per la dedicazione della sua chiesa nella capitale bizantina. Quindi la diffusione in queste contrade potrebbe essere avvenuta attraverso la tradizione liturgica delle non poche comunità di rito greco presenti nella intera provincia, ad Ugento e nei suoi immediati dintorni. Della presenza di clero greco seno rimaste attestazioni nelle fonti documentarie dei primi decenni del sec. XIV. Ciò vuol dire che la conquista normanna di questa provincia, nei secc. XI-XII, non significò la latinizzazione forzata della liturgia dei gruppi greci. Il bilinguismo caratterizzò queste popolazioni salentine per qualche secolo ancora, come la compresenza di liturgie diverse: i cicli iconografici e le iscrizioni di Celsorizzo, nei pressi di Acquarica ciel Capo, dimostrano chiaramente, come le raffigurazioni sulle pareti della sua cappella di s. Nicola dei santi occidentali Vincenzo e Agata insieme con gli orientali Giovanni Crisostomo e Basilio, Cosma e Damiano. Qui come altrove, del resto.
La intitolazione della cattedrale ugentina a s. Vincenzo esprime il momento più forte della diffusione nel Salento estremo di quel culto di origine occidentale e così presente in altre regioni cristiane latine; ma quel santo martire fu venerato pure dalle popolazioni salentine di lingua greca e di liturgia bizantina. Tutto questo testimonia quell’ecumene cristiano che unificò le popolazioni di gran parte del Mediterraneo per molti secoli.
S. Palese, Culto del basso Salento: S. Vincenzo nella diocesi di Ugento in “Bollettino Storico di Terra d’Otranto. Società di Storia Patria per la Puglia Sezione di Galatina” 6 (1996), pp. 155-165. La versione integrale, provvista del corredo di note, è consultabile sul sito della diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca.