
Omelia nella Messa per la “Carta di Leuca n. 7”
piazzale della Basilica di Leuca, 14 agosto 2023
Cari giovani,
Egregi Sindaci
Gentilissime Autorità istituzionali, civili e militari,
cari fratelli e sorelle,
mentre ai nostri giorni accadono ancora le tragiche morti nel mar Mediterraneo, la Carta di Leuca di quest’anno, proponendoci come tema “Mediterraneo, venti di nuova umanità”, ci invita a soffermarci ancora una volta su questo “mare tra le terre” per riscoprire il suo senso più profondo e individuare le spinte culturali, religiose e sociali che orientano verso la costruzione di una nuova umanità.
1. Il Mediterraneo, il mare di una “irriducibile complessità”,
Da sempre il Mediterraneo si presenta nella sua dimensione antinomica, nei suoi due tratti antagonisti, ma inscindibilmente legati tra di loro: l’aspetto unitario, l’essere culla delle civiltà, e quello conflittuale, in quanto focolaio di tensioni secolari mai sopite. Questo mare unisce e divide nel medesimo tempo, quasi assecondando un vecchio adagio marinaresco che recita: il mare unisce i paesi che separa. Fin nella sua composizione geografica, il Mediterraneo è un mare chiuso e nello stesso tempo aperto; chiuso in confini ben determinati e aperto all’oceano Atlantico tramite lo stretto di Gibilterra. La sua relativa dimensione lo ha trasformato in un mare facile da attraversare, ma senza la massa dell’acqua che si riversa dall’Atlantico, non esisterebbe più come mare. L’abbondante evaporazione, infatti, farebbe abbassare il suo livello di un metro l’anno.
Il Mediterraneo è quindi un confine naturale delle comunità politiche, delle loro leggi e dei diritti e doveri che definiscono l’appartenenza a una cittadinanza. Ma è anche la principale via di comunicazione, di scambio e di “reticolazione” di merci, persone e culture. In altri termini, il «nome, medi-terraneo, parla di un mare che separa e unisce, che sta tra le terre senza appartenere in esclusiva a nessuna di esse, che resiste ad ogni desiderio di annessione, un mare che si rifiuta di rinchiudere la propria inquietudine nella fissità di una Scrittura, nella sacralità assoluta e definitiva di un testo. In questo suo essere di tutti e di nessuno, il Mediterraneo è quindi allergico a tutti i fondamentalismi»[1].
Sulle sue rive «vivono popoli tanto diversi e allo stesso tempo tanti simili»[2]. Infatti, il Mediterraneo è «mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre»[3]. «Da solo costituiva in passato un universo, un pianeta»[4].
Apparteniamo tutti allo stesso mare. Per questo il poeta scrive: «Il mio mare è il tuo mare. Noi apparteniamo ad un unico mare, andiamo verso un unico mare. Il mare è il mare»[5]. Tuttavia, in questo spazio geografico e umano vige una «complessità, dove è impossibile la reductio ad unum»[6]. Nelle sue acque e sulle sue rive è sedimentata una memoria storica che, nello stesso tempo, è «un immenso archivio e un profondo sepolcro»[7].
Questa dimensione antinomica e complessa va intesa non nel senso che prevale l’unità sulla diversità, ma in consonanza con la sua storia come un’incessante ricerca di equilibrio, di misura, di convivenza; una ricerca che ha finito con il tessere una fitta rete di legami ed interazioni che fanno del Mediterraneo un ecosistema molto caratterizzato di cui i popoli, che vivono lungo le sue sponde, hanno coscienza. «Nel paesaggio fisico come in quello umano, il Mediterraneo crocevia, il Mediterraneo eteroclito si presenta al nostro ricordo come un’immagine coerente, un sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in una unità originale»[8].
2. Mediterraneo, un mosaico dalle molte tessere
In questa prospettiva, si può accogliere l’immagine di un Mediterraneo “mosaico con cinque rive”. I suoi confini, infatti, «non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo. […] somigliano al cerchio di gesso che continua a essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano e restringono […] È difficile scoprire ciò che ci spinge a provare a ricomporre continuamente il mosaico mediterraneo»[9]; una fusione tra mare e terra, tessuta di piastrelle minute, di colori in contrasto, con un respiro d’insieme ancora grande e sereno, come quel gigantesco Cristo onnipotente che abbellisce l’abside della cappella Palatina di Palermo; un mosaico di popoli con le loro somiglianze e differenze. Un incredibile e affascinante intreccio di culture e storie che si sono susseguite, contrapposte, fuse. Antagonismi, differenze che hanno fatto di questo luogo il crocevia e il crogiolo di irriducibili pluralità.
Il Mediterraneo è un «mosaico di tutti i colori», difficile da ricomporre o da catalogare nelle diverse componenti e nelle loro interazioni. È una pluralità di universi: cerniera di tre continenti (Asia, Africa ed Europa) dove coesistono le tre grandi religioni monoteiste e si è espresso anche lo spirito laico più precoce della storia umana. Questa vocazione e missione storica comune consiste nel fatto che i popoli e le nazioni del Mediterraneo sono portatori di una civiltà fondata sull’universalità dei suoi valori essenziali, tali da costituire un messaggio di verità, di ordine e di bene, valido per tutti i tempi, per tutti i popoli e per tutte le nazioni.
In questo ambiente di vita e di scambi culturali e commerciali, si è costituita la comunità cristiana che, non senza ragione, può essere definita “Chiesa mediterranea per diritto di nascita”, non solo per il fatto storico che è nata ed è presente nel Mediterraneo e per la sua contiguità culturale che la avvicina ai caratteri propri delle società e dei popoli che si affacciano sulle rive di questo mare[10], ma soprattutto perché è «grazie al Mediterraneo (come opportunità transculturale, come spazio interculturale) che è stato possibile concettualizzare e annunciare la portata universale della resurrezione di Cristo. Le Chiese da cui è partita la spinta missionaria verso tutto il mondo non possono più rinunciare al respiro mediterraneo che le unisce, perché questo nostro mare è uno snodo fondamentale per la testimonianza cristiana»[11]. La Chiesa è una comunità alla quale appartengono strutturalmente ed essenzialmente elementi caratterizzanti il suo stesso essere e la sua specifica missione: la destinazione universale dell’annuncio evangelico e della salvezza e l’armonica relazione, insita nella stessa rivelazione e nella fede cristiana, tra unità e pluralità, identità e differenza, l’uno e i molti, caratteristiche, queste, confacenti alla cultura mediterranea.
3. Lo Spirito Santo, la rosa dei venti, stella a otto braccia generatrice di novità
Questo mare semichiuso è circondato da terre molto diverse tra di loro. Ci sono i deserti del Nord Africa, le Alpi, i monti del Balcani e le pianure del centro Europa. Questa caratteristica influenza il regime dei venti che soffiano da diverse direzioni e con intensità diverse.
Sono otto i principali venti che soffiano in questa regione e che formano la “rosa dei venti”, la “bussola naturale” sulla quale sono tracciate le direzioni degli otto venti, disposti come i petali di una rosa che si espandono in ogni direzione, dando un senso di crescita circolare. Nell’antichità, le differenti direzioni geografiche venivano associate ai diversi venti, mentre di notte i marinai usavano affidarsi alle stelle. Quando la navigazione era solo a vela e non esistevano ancora le bussole magnetiche, consultare la rosa dei venti era molto importante per potersi orientare in mare aperto. Ancora oggi la rosa dei venti è considerata uno degli strumenti più preziosi per i marinai.
Partendo da Nord e girando in senso orario, si può osservare la loro specifica composizione: la tramontana (da N) in riferimento ai venti freddi che arrivano dal nord, il grecale (da NE), in relazione alla ubicazione della Grecia, levante (da E), per la posizione della regione Mediorientale, scirocco (da SE)dall’arabo suluq, vento di origine egiziana per i parametri mediterranei, mezzogiorno o ostro (da Sud), dal latino auster (“sud” e “bruciante”), un vento flebile tanto da risultare quasi impercettibile, libeccio (da SO), vento energico e umido che prende il nome dal nome della regione libica, ponente (da O), vento del tramonto in quanto il sole si “pone” o appoggia sull’orizzonte, maestrale (da NO), da maestro nel senso di principale (come in “albero maestro”) in quanto il più potente.
La rosa dei venti, stella a otto bracci, simboleggia lo Spirito Sano, la stella maris, il soffio dello Spirito Santo che aleggia sulle acque. Quando la Scrittura descrive la sua azione e i suoi effetti presenta una grande varietà di immagini: l’ombra della nube, il calore e la luce del fuoco, il volo della colomba, lo scorrere dell’acqua. Tra tutte immagini, quella del vento impetuoso o leggero indica il movimento, la forza e, nello stesso tempo, l’inconoscibilità della sua azione. Come il vento, lo Spirito Santo è il “senza volto”, l’inafferrabile, l’imprevedibile.
Il termine greco più utilizzato è πνευµα, mentre l’ebraico si serve della parola ruach, termine che, nel contesto biblico, ha un ampio diagramma semantico col significato di vento, alito, soffio, spirito, vapore, fumo, respiro. Anche se il campo semantico di ruach è molto esteso, può tuttavia essere ricondotto a due termini fondamentali: al binomio vento-respiro. Secondo una antichissima convinzione molto diffusa nella cultura semitica, il vento era ritenuto come una realtà piena di mistero, una realtà inafferrabile, imprevedibile, invisibile, di cui si avverte il passaggio e sono riscontrabili a occhio nudo i suoi effetti: il vento spira, sibila, agita le foglie, spande il profumo nell’aria, spazza via le nubi e rende azzurro il cielo, piega i rami e sradica gli alberi.
Il termine comprende in sé due valenze simili e, nello stesso tempo, diverse: respirare e spirare. L’uomo è generato nel soffio dell’amore, la sua esistenza è segnata dal sigillo del bacio con cui Dio dona la vita alla sua creatura. I Padri della Chiesa e alcuni mistici intravedono il mistero d’amore che lega per sempre Dio all’uomo. L’istante tra l’espirare e l’inspirare è dunque il segno di quella distanza che ancora ci separa dal respiro di Dio, è attesa di una vita pienamente ricevuta, non più soggetta a nessuna interruzione, è invocazione del suo alito di vita, è gratitudine ad ogni respiro per una vita costantemente donata.
Lo Spirito soffia continuamente il suo alito. Non siamo stati creati solo nell’istante in cui in un’estasi d’amore ci ha generati, ma costantemente il suo soffio di vita ci genera e ci rigenera, ci crea e ci ricrea: donando costantemente vita all’uomo, agli animali e a tutte le altre creature. Tra l’ispirare e l’espirare di noi povere creature vi è il soffio continuo, ora impetuoso e ora leggero. dell’alito di Dio: alito effuso nei nostri cuori, fiume d’acqua viva per dissetare le nostre gole riarse, che continuamente genera in noi il desiderio di lui; anelito gemente che continuamente alimenta in noi il desiderio del ritorno.
Lo Spirito in quanto vento irrompe, viene d’improvviso, rapisce, afferra. Nessuno, però, sa di dove viene e dove va (cf. Gv 3). È una forza impetuosa e gagliarda che tutti avvolge nel giorno di Pentecoste (cf. At 2); è il soffio di vita che dovunque passa genera vita trasformando la desolata valle di ossa aride in esseri viventi (cf. Ez 37); è il respiro che dà voce all’ineffabile Parola di Dio: voce che spezza i cedri del Libano, che travolge le querce e scuote il deserto (Sal 28). Ma è anche mormorio del vento leggero (cf. 1Re 19, 12), gemito in noi che grida «Abba Padre» (Rm 8).
Come il vento esiste e lo si avverte negli effetti, anche se è inspiegabile, così è dello Spirito esiste e opera, benché resti misteriosa la sua esistenza e la sua attività. Il vento che soffia dall’alto non lo si vede, ma si fa sentire; non ha un volto da offrire alla visione, ma fa avvertire la sua presenza: è una forza che afferra tutta la persona, è un fuoco che riscalda e illumina “dentro”, è un impulso irresistibile che parte dal più profondo e investe vita, lavoro, aspirazioni e progetti. La sua azione segreta e discreta si manifesta nelle ispirazioni, nelle illuminazioni improvvise, negli eroismi di carità, nella forza di svincolarci dalla stretta delle numerose schiavitù del male, della paura, del conformismo e ci fa risultare persone nuove, coraggiose, ricche di slanci e di creatività.
Come la rosa dei venti anima la rotta dei naviganti e crea un continuo cambiamento, così lo Spirito è l’energia divina che dirige la storia e la vita di ogni persona generando sempre novità. Va però ricordato che, nella prospettiva cristiana, vige una circolarità tra nuovo e antico. «Nella storia della Chiesa, “il vecchio” e “il nuovo” sono sempre profondamente intrecciati tra loro. Il “nuovo” cresce dal “vecchio”, il “vecchio” trova nel “nuovo” una sua più piena espressione»[12]. Questo rapporto vale per comprendere la relazione che esiste tra antico e Nuovo Testamento secondo il principio indicato da sant’Agostino per il quale «Novum in Vetere latet et in Novo Vetus patet »[13]. Ciò significa che il “Nuovo” è già nascosto nel Vecchio e il Vecchio rivela il suo pieno significato nel Nuovo. In altri termini, la radice del cristianesimo si trova nell’Antico Testamento e il cristianesimo si nutre sempre a questa radice. Non solo non si possono contrapporre o disgiungere i due Testamenti[14], ma il Nuovo Testamento porta a compimento l’Antico.
Bisogna però considerare che il concetto di adempimento è complesso, perché comporta una triplice dimensione: un aspetto di continuità, di rottura e un di compimento e superamento. Il mistero pasquale di Cristo, infatti, è pienamente conforme, in un modo però imprevedibile, con le profezie e l’aspetto prefigurativo delle Scritture e, tuttavia, presenta evidenti aspetti di discontinuità rispetto alle istituzioni dell’Antico Testamento. Con san Gregorio Magno possiamo dire che quanto «l’Antico Testamento ha promesso, il Nuovo Testamento l’ha fatto vedere; ciò che quello annunzia in maniera occulta, questo proclama apertamente come presente. Perciò l’Antico Testamento è profezia del Nuovo Testamento; e il miglior commento dell’Antico Testamento è il Nuovo Testamento»[15].
4. L’uomo nuovo creato dal Padre, redento dal Figlio nella forza dello Spirito Santo
La nuova umanità generata dallo Spirito è sempre in una relazione di continuità, di inveramento e di superamento con quanto realizzato nel passato. L’umanità è nata “nuova” dalle mani di Dio creatore. È stata, infatti, modellata “ex nihilo”. Anche l’antico mito della nascita di Venere dalle acque del mare sottintende la celebrazione della nascita di una nuova umanità. La sua bellezza corporea rappresenta la perfezione e la purezza d’animo e l’amore come energia e forza motrice del creato.
La “novità” generata dell’atto di Dio creatore è intimamente legata a quella di Cristo redentore. Una nuova umanità risorge con Cristo risorto. Essa non annulla la precedente novità, ma la riconferma e la rende ancora più sublime. Cristo, infatti, svela l’uomo all’uomo[16] in un triplice senso. Cristo è uomo “nuovo”; in lui si realizza un compimento dell’umano indeducibile dalle aspettative umane. In Gesù sorge un nuovo umanesimo[17]. Cristo è uomo “perfetto”, ossia la perfetta realizzazione dell’umano. Non solo nel senso che Cristo abbia una vera e completa natura umana secondo l’accezione degli antichi concili cristologici («vere homo»), ma nel senso che Cristo rappresenta l’uomo che è perfettamente uomo: «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo»[18]. Cristo ha quindi una pienezza di umanità non solo esemplare in se stessa, ma anche produttiva di un’umanità perfezionata. Cristo, infine è “ultimo Adamo” (cf. 1Cor 15,45), l’Adamo escatologico che svela in pienezza anche l’identità del primo Adamo.
Il fondamento cristologico dell’antropologia ci dice che «l’uomo non è la misura di Cristo, ma è Cristo la misura dell’uomo. L’antropologia deve attingere i propri criteri definitivi dalla cristologia e non da altro»[19] . Il centro dell’antropologia cristiana è una persona, non un’idea. Qui sta la sua novità più radicale e definitiva. «La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente rivelato nel mistero pasquale»[20] in modo che «tutto il mondo veda e riconosca che ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo del Cristo, che è principio di tutte le cose»[21].
La missione antica e nuova della Chiesa è quella di aiutarli ad aprire la mente e il cuore a quel Dio che li cerca e vuole farsi loro vicino, guidarli a comprendere che compiere la sua volontà non è un limite alla libertà, ma è essere veramente liberi, realizzare il vero bene della vita. Dio è il garante, non il concorrente, della nostra felicità, e dove entra il Vangelo l’uomo sperimenta di essere oggetto di un amore che purifica, riscalda e rinnova, e rende capaci di amare e di servire l’uomo con amore divino[22]. Pertanto, occorre «additare Cristo all’uomo d’oggi, presentandolo come la vera misura della maturità e della pienezza umana»[23]. Cristo è l’uomo «nuovo» nel senso che l’uomo viene restituito alla sua verità originaria. «Usando il linguaggio dei padri greci, specie dei cappadoci, si potrebbe dire che in Cristo l’uomo immagine di Dio è restituito alla sua bellezza primitiva»[24].
Senza Cristo l’uomo rimane sempre quello descritto da Salvatore Quasimodo nella poesia Uomo del mio tempo[25]. In essa, il poeta mette al centro l’idea che l’uomo non cambia la propria natura. Gli uomini hanno conservato la propria natura legata all’istinto, lo stesso istinto degli animali, lo stesso di tutti coloro che nel corso della storia hanno ucciso e sterminato i propri simili. Suggestiva la metafora delle “ali maligne” (riferendosi ai piloti degli aerei da guerra) e l’espressione “scienza esatta persuasa allo sterminio”, altra metafora ben collegata alla precedente, così come le “meridiane di morte” (le ombre create dagli aerei che preannunciano lo sterminio che stanno per causare). Intenso è il riferimento alla Genesi in riferimento dell’uccisione di Abele da parte del fratello. Così l’uomo “moderno” continua a macchiarsi di omicidi e atti orribili. La tecnologia e la scienza non solo non sono siano state in grado di migliorare il comportamento umano, ma hanno perfezionato gi strumenti di morte. L’uomo ha quindi mantenuto una mentalità da cavernicolo, nonostante le armi e le tecnologie sofisticate. Nella seconda parte il poeta invita a distaccarsi dai padri ed esorta tutti a non commettere gli stessi errori, ma a dare forma a una nuova umanità.
5. Per una novità culturale ed economica
Il vento dello Spirito soffia anche nel nostro tempo in direzione della costruzione di una nuova umanità. Per questo è necessario «costruire una visione mediterranea solida ed articolata, capace di comprendere le relazioni economiche, quelle politiche, ma anche quelle culturali e religiose. Sono infatti convinto che la visione solida che si sviluppa tra i popoli del Mediterraneo è proprio la civiltà del vivere insieme tra diversi: è la civiltà delle nostre città, è la civiltà delle relazioni tra i nostri paesi, è la civiltà dello spazio mediterraneo. Insomma è la realizzazione di una vera civiltà, che non s’impone agli altri, ma si compone. La civiltà del convivere tra tanti universi culturali, politici e religiosi»[26].
Sotto questo profilo è auspicabile che venga accolto l’appello lanciato da Edgard Morin per «un’unione transnazionale degli intellettuali mediterranei»[27], convinto che una riforma del pensiero sia necessaria e che l’identità mediterranea possa dare un contributo utile per cogliere l’unità nella diversità e la diversità nell’unità. Sarebbero molti gi aspetti da discutere. Due mi sembrano particolarmente significative per risolvere i tanti problemi che affliggono la nostra umanità: una diversa impostazione economica e una serena discussione tra identità e alterità
5.1. L’economia civile come economia del dono
Contro la logica dello sfrenato utilitarismo che oggi sembra trionfare in molti campi prende forma una forte opposizione da parte della filosofia e dell’antropologia. Ad alzare il vessillo della rivolta è stato, nel 1992, il sociologo francese Alain Caillé con il suo Lo spirito del dono, scritto a quattro mani con il collega canadese Jacques T. Godbout. Ma già in precedenza Caillé aveva espresso il suo dissenso con la Critica della ragione utilitaristica del 1989, che assestava un primo colpo all’assioma dell’egoismo, secondo il quale in ogni azione e relazione sociale non si può che mirare al soddisfacimento del proprio interesse.
La sua analisi riprendeva le tesi di M. Mauss il quale, nel suo Saggio sul dono, pubblicava i risultati della sua indagine sulla pratica del dono individuando tre caratteristiche fondamentali: “dare, ricevere, ricambiare”. Il dono non è quindi pratica libera, è un obbligo sociale, è un vincolo comunitario, non è liberalità del singolo, non è disinteresse. Nelle tribù studiate dall’antropologo francese gli uomini vedono negli oggetti una forza magica, un mana che le li lega indissolubilmente al donatore. Gli oggetti donati e ricevuti presentano caratteristiche magiche, simboliche, mitiche, religiose, immaginarie, che vincolano e influenzano la persona che le dona o le riceve.
La scoperta della obbligatorietà del donare, nella individuazione delle relazioni sociali che inducono e forzano il donare e il contraccambiare al dono, pone la socialità del dono all’interno della nozione di utile. Mauss però non si riferiva soltanto alle società arcaiche e primitive. L’attuale economia civile, infatti, propone un modo di pensare al sistema economico basato su alcuni principi – come la reciprocità, la gratuità e la fraternità – che superano la supremazia del profitto o del mero scambio strumentale nell’attività economica e finanziaria. Si propone quindi come possibile alternativa alla concezione capitalista del mercato.
5.2. La dialettica tra identità e alterità
Occorre poi coniugare il giusto rapporto tra identità e alterità. Il termine “identità” contiene in sé due sensi che sono non semplicemente diversi ma diametralmente opposti. Infatti, il termine sta ad indicare, da una parte, il complesso dei dati caratteristici e fondamentali che consentono l’individuazione di un soggetto, ne garantiscono l’autenticità e l’unicità e, dall’altra parte, “identità” attesta proprio l’uso contrario di unico, cioè quello di idem, di medesimo[28]. In altre parole, se, per un verso, l’identità denota il senso del proprio essere come ens unico e distinguibile da tutti gli altri, per altro verso, l’essere identico stabilisce un rapporto di uguaglianza o coincidenza. Quindi l’identità è causa ed effetto delle diverse e numerose appartenenze che possediamo e che ci possiedono.
L’identità non è mai acquisita una volta per tutte, ma è messa in un processo storico ed è soggetta all’interazione con la diversità e la differenza, legandosi strettamente all’“essere altro da”, fino ad individuare quest’ultima quale suo co-principio, riconoscendo il primato dell’altro, la sua autonomia e anche la sua principalità[29]. In questa prospettiva, bisogna considerare che l’altro è per me costitutivo perché, con la sua alterità da me, mi aiuta a definirmi, a diventare consapevole della mia identità, dei miei contorni personali, del mio profilo diverso e distinto dal suo. Inoltre con le sue esigenze, con le sue rivendicazioni, ma pure con la sua disponibilità invita a non far degenerare la distinzione in distanza. Noi ci costituiamo in forza di una dialettica di discontinuità nella continuità. Siamo tutti collegati proprio perché tutti distinti, per quanto talvolta in lotta reciproca18.
Secondo M. Buber, la relazione “io-tu” è il luogo in cui trovare l’altro e trovare sé stessi, dove incontrarsi con l’altro-da-sé e l’altro-di-sé. La relazione, infatti, non è mero atteggiamento psicologico sentimentale, ma «una struttura ontologica originaria»[30]. Emmanuel Lévinas, in Totalità e Infinito, sposta l’attenzione della relazione e contemporaneamente chiarisce la parola chiave della sua filosofia, le Visage. Il Volto è domanda, è appello, è epifania dell’Altro e libera dall’incantamento egologico del Medesimo e richiama ad un’etica della responsabilità e del valore[31].
La nuova umanità nascerà da questi presupposti. La sfida del Mediterraneo, maestro di equilibrio e di misura, è quella di resistere agli elementi disgregatori interni ed esterni, consci dell’avvertimento che «il Mediterraneo è quale lo fanno gli uomini»[32].
[1] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 79-80.
[2] F. Horchani, Tradizioni e modernità: le condizioni del dialogo fra le due sponde, in F. Horchani-D. Zolo (a cura di) Mediterraneo: Un dialogo fra le due sponde, Jouvence, Roma 2005, p. 159.
[3] F. Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 2000, p. 8.
[4] Id., Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 2000, 31.
[5] M. Darwish, Une mémoire pour l’oubli, Actes Sud, Arles 1994, pp. 193-194.
[6] A. Riccardi, Mediterraneo. Cristianesimo e Islam tra coabitazione e conflitti, Guerini e Associati, Milano 2014, p. 33.
[7] P. Matvejević, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Milano, Garzanti, Milano 1991, p. 38.
[8] F. Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 1985, p. 10.
[9] P. Matvejević, Breviario mediterraneo, Garzanti, Milano 201810, p. 18.
[10] Cf. V. Angiuli, Chiesa mediterranea, promotrice di pace, tra migrazioni e dialogo, in “Bollettino diocesano S. Maria de finibus terrae”, 84, 2021, luglio dicembre, n. 2, pp. 641-656.
[11] G. Bassetti, Vocazione e missione di una Chiesa mediterranea, in Id., Una profezia di pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020, p. 100.
[12] Giovanni Paolo II, Novo millennio adveniente, 18.
[13] Agostino, Quaestiones in Heptateucum, 2, 73; cf. Dei Verbum, 16.
[14] Cf. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 19; Origene, Omelia sui Numeri 9, 4.
[15] Gregorio Magno, Omelia su Ezechiele, I, VI, 15.
[16] Cf. Gaudium et spes, 22.
[17] L’espressione «uomo nuovo» è presente in Ef 2,14-15: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. 15Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo (καινὸν ἄνθρωπον), facendo la pace».
[18] Gaudium et spes, 41.
[19] L. F. Ladaria, Cristo, “perfecto hombre” y ”hombre perfecto”, in Id., Jesucristo, salvación de todos, San Pablo, Madrid 2007, 40; tr. it., Id., Gesù Cristo salvezza di tutti, EDB, Bologna 2009, 25.
[20] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 35.
[21] Messale Romano, Colletta 7 della Veglia di Pasqua.
[22] Cf. Benedetto XVI, Discorso all’assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, 24.5.2012.
[23] Id., Messaggio ai partecipanti della X seduta pubblica delle Pontificie Accademie, 5 novembre 2005.
[24] B. Petrà, In Cristo, l’uomo «futuro», in “Vivens homo”, 26, 2015, p. 397.
[25] «Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, / con le ali maligne, le meridiane di morte, / t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, / come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno / Quando il fratello disse all’altro fratello: / «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace, / è giunta fino a te, dentro la tua giornata. / Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue / Salite dalla terra, dimenticate i padri: / le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore».
[26] A. Riccardi, Mediterraneo, Guerini, Milano 2014, pp. 232-233.
[27] Cf. R. Morin, Penser la Méditerranée et méditerranéiser la pensée, in “Confluences méditerranéennes”, 1998-1999, n.28, pp. 33-47.
[28] Cf. P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993.
[29] R. De Vita, Identità e dialogo, Franco Angeli 2003.
[30] A. Poma, La parola rivolta all’uomo occidentale, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, tr. it. San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, p. 15.
[31] Cf. E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1986.
[32] F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Parigi 1996, p. 166.