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L’abisso d’amore della Trinità

Riflessione durante la Veglia Diocesana di Pentecoste
Chiesa di S. Biagio, Corsano – 25 maggio 2023

Cari giovani,

nel mese di ottobre, ci siamo ritrovati nella veglia missionaria per chiedere al Signore di aiutarci a vivere il cammino pastorale. Nella Messa crismale, abbiamo espresso la nostra identità ecclesiale. Gli oli santi, infatti, sono simbolo dello Spirito che scende in noi attraverso i sacramenti del battesimo, della cresima, degli ordini sacri e dell’unzione degli infermi. In questa veglia in preparazione alla festa di Pentecoste, riconosciamo che è lo Spirito Santo a guidare la nostra comunità diocesana. La nostra vita pastorale, pertanto, come un anello sponsale, parte dall’invocazione dello Spirito Santo e torna nuovamente a invocarlo. Tutto avviene sotto la sua potente effusione. 

La Chiesa vive per questa misteriosa presenza dello Spirito Santo che scende nella vita personale e comunitaria dei fedeli. Il mistero della Pentecoste, che si è realizzato una volta per tutte, continua a muovere la storia del popolo di Dio. Siamo sempre sotto il soffio dello Spirito Santo. Egli, come un vento impetuoso, muove la barca della Chiesa. Senza di lui non accade nulla in noi e nel mondo. È bello parlare e conversare con lui.  Per questo dovremmo parlare e invocare di più lo Spirito santo. L’invocazione consiste in una semplice espressione: «Vieni, santo Spirito». 

Questa sera ci prepariamo a vivere la festa liturgico-sacramentale di Pentecoste, strettamente legata alla Pentecoste storico-salvifica, narrata dalla tradizione giovannea e lucana. Per il vangelo di Giovanni, la Pentecoste avviene nello stesso momento in cui Cristo muore. Per il vangelo di Luca, invece, lo Spirito scende cinquanta giorni dopo la Pasqua. Dopo averlo effuso dalla croce e donato agli apostoli nel cenacolo, Cristo glorioso soffia continuamente lo Spirito sulla Chiesa e sul mondo. Si manifesta così la stretta unità tra Cristo crocifisso e lo Spirito Santo (cf. Gv 19,30), Cristo risorto e lo Spirito Santo (cf. Gv 20,22), Cristo glorioso e lo Spirito Santo (cf. At 2,1-3). Il compimento, avvenuto sulla croce e attraverso la manifestazione pubblica nel Cenacolo, si prolunga nella perenne effusione nel tempo fino alla consumazione finale in cielo. 

Lo Spirito, l’abisso d’amore di Dio 

Ci domandiamo: Chi è Spirito Santo? La risposta è semplice: è la terza persona della Trinità e propriamente l’abisso d’amore tra le tre divine persone. Non è solo l’amore, ma l’abisso d’amore fatto persona. Lo Spirito è l’ineffabile profondità di Dio, la sua essenza più intima. Egli infatti, «scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Nessuno ha mai potuto conoscere i segreti di Dio se non lo Spirito di Dio» (1Cor 2,10-11). 

«Nella sua mano sono gli abissi della terra» (Sal 94,4), recita il salmista. La parola “abisso” (lat. abyssus, gr. ἄβυσσος «senza fondo») si può intendere in senso materiale a indicare una grande e smisurata profondità. Si può anche intendere in senso figurato, come quando si dice di essere sull’orlo dell’abisso. Si può soprattutto intendere come impenetrabile amore divino: l’abisso de l’etterno consiglio (Dante). 

 La Sacra Scrittura afferma che anche l’uomo è un abisso: «Un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso» (Sal 63, 7). L’uomo è un mistero a se stesso e il suo cuore un abisso. I due abissi si cercano: «Abyssus abyssum invocat, l’abisso invoca l’abisso» (Sal 42,8). L’abisso di Dio è lo Spirito Santo, il Paraclito, colui che è sempre pronto a venire incontro, perché è accanto a noi, anzi è già dentro di noi. Egli non si dimentica di noi e non si allontana da noi, siamo noi che ci dimentichiamo di lui. L’abisso del cuore dell’uomo rimane un abisso, fin quando lo Spirito Santo non scende e prende dimora nella nostra anima. Pregare vuol dire risvegliare in noi la presenza dello Spirito. 

San Bernardo afferma: «L’abisso luminoso chiama l’abisso di tenebre, l’abisso di misericordia chiama l’abisso di miseria. Il cuore dell’uomo è di per sé un abisso, e un abisso senza fondo. Ma se la mia iniquità è così grande, la tua benevolenza, Signore, è molto più grande. Per questa ragione, quando la mia anima è turbata da me stesso, mi ricordo la grandezza della tua misericordia e in quella trovo sollievo, e quando arrivo al fondo della mia debolezza non voglio ricordate niente se non la tua giustizia»[1].

L’abisso del mondo moderno

Nel quarto capitolo di Al di là del bene e del male (1886), intitolato Detti e intermezzi, Friedrich Nietzsche fa la sua celebre osservazione: «Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro». Ebbene: il problema della nostra civiltà è che essa ha guardato troppo a lungo nelle profondità insondabili dell’abisso; e sta continuando a farlo tuttora. L’abisso in cui guardano, affascinati e sedotti, è l’abisso del relativismo, del materialismo, del nichilismo: è l’abisso degli abissi, cioè il nulla, il vuoto.

I padri della modernità sognavano di riempire il vuoto, creato dalla distruzione sistematica della tradizione, con i loro nuovi idoli: la ragione scientifica, il progresso illimitato, l’edonismo eretto a sistema, la teoria dei diritti innati e inalienabili, il successo fine a se stesso. Per questo la civiltà moderna, che ha azzerato la tradizione e ha reciso i legami con la trascendenza, si affida totalmente ad affrontare e risolvere i problemi dell’esistenza mediante soluzioni tecnologiche.

Questa corsa senza una meta e questo movimento senza uno scopo determinato è come un vortice che spinge gli uomini a lasciarsi attrarre e affascinare da questo movimento vertiginoso, del quale nessuno comprende la destinazione finale. Molti addirittura negano che vi sia una destinazione finale, essendo il concetto stesso di progresso illimitato tale da escludere che vi sia mai una meta, neppure una sosta.

Questa fascinazione culturale delinea una situazione psicologica e morale simile a quella descritta da Nietzsche: guardare troppo a lungo nell’abisso, finisce per trasformare l’abisso come colui che guarda all’interno dell’uomo. L’abisso è ciò che supera ontologicamente, e non solo psicologicamente o intellettualmente, la misura umana; quando un essere umano è scrutato dall’abisso, si trasforma, per così dire, da cacciatore a preda: non è più lui che avanza e che agisce, ma è afferrato e posseduto da qualcosa che è più grande di lui ed è estranea alla sua natura.

Gli uomini moderni sono diventati, alla lettera, il popolo dell’abisso. Sembra il titolo di un romanzo di fantascienza, o meglio di un romanzo del terrore. Il paradosso è che non lo sanno; e che, se qualcuno provasse a metterli in guardia, non otterrebbe come risposta che un incredulo sorriso, non scevro di una certa qual supponenza e di un certo qual compatimento. 

L’abisso nel quale guardano gli uomini moderni non è uno spazio “neutro”, ma è lo spazio di ciò che si oppone al senso, al valore, al giusto, al bello; è lo spazio del male: un inno alle forze oscure. È l’abisso della mistificazione, dell’eresia, della menzogna promossa a verità e della verità fatta passare per menzogna.

Gli uomini moderni, sprofondati nel relativismo, assuefatti al soggettivismo e rotti a qualsiasi arbitrio morale, a qualunque compromesso con la propria coscienza, non solo si ritengono in diritto di capovolgere tutti i valori, con la scusa della libertà e della realizzazione di sé, ma si sono talmente induriti e inariditi, da non rendersi più neppure conto della perversione dei valori, di cui sono artefici e vittime al tempo stesso.

Ne consegue che la sola via d’uscita dal vicolo cieco in cui gli uomini moderni si sono cacciati è la riscoperta del valore dell’umiltà, del sapersi piccoli, del riconoscersi creature. In ognuno di loro, c’è una scintilla divina: sono creature fatte a immagine di Dio! Forti di questa consapevolezza, e tuttavia consapevoli dei loro limiti e della loro fragilità ontologica, possono ancora fermare il treno impazzito della modernità, e rientrare in se stessi: perché senza Dio, si cade in un abisso senza fondo. Lo Spirito Santo è colui che guida uscire da questo abisso per sprofondare nell’abisso di Dio.

I motivi che giustificano l’invocazione dello Spirito Santo

Richiamo i cinque motivi che giustificano l’invocazione dello Spirito Santo. In primo luogo, bisogna andare controcorrente. Viviamo in un mondo materialista, che ci spinge verso gli istinti negativi, quelli che i Padri orientali chiamavano gli otto pensieri cattivi. Dovremmo essere come i salmoni che tornano all’origine, là dove sgorga la vita vera.

            In secondo luogo, è necessario accogliere l’identità che Dio stesso ci dona. Ogni giorno, in vari modi, cerchiamo l’autorealizzazione: ci poniamo obiettivi, investiamo energie, sogniamo risultati. Spesso rimaniamo delusi, perché organizzandoci e orientandoci da soli, dimentichiamo di essere un’identità donata, per cui tutto è grazia.

In terzo luogo, occorre relazionarci con altri. La vita è relazione e il maestro della relazione è lo Spirito Santo. Generato all’interno del circolo d’amore della Trinità, egli è la comunione fatta persona. Invocando lo Spirito, si entra nel segreto stesso della relazione, della vita così come il Signore l’ha voluta e realizzata.

Inoltre, nella lotta con “il forte”, si riporta vittoria se ci si affida al “più forte”. Il male ci insidia e ci assedia. Inquina i pensieri, i sentimenti e le azioni. Ben presto, la tristezza si fa largo e, a volte, diventa depressione. L’unico modo per venirne fuori è rivolgersi a una forza più potente, capace di vincere ogni forma di male.

            Infine, invocando lo Spirito Santo si riesce a superare la nostra insuperabile solitudine. Se invochiamo lo Spirito Santo, rinasce in noi la fiducia, la speranza e la comunione. Non siamo un’isola. Lo Spirito Santo è la stessa armonia.

Le caratteristiche essenziali dello Sporto Santo

È lui la forza (dynamis) che crea, rinnova e ringiovanisce ogni cosa. Lo Spirito è l’irruzione di Dio che non tollera il chiuso, ma spalanca le portecome un forte vento e un soffio primordiale. Si compie così la promessa del Risorto di inviare la sua “forza” (cf. At 1,8). Lo Spirito giunge all’improvviso, dall’alto, come «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempie tutta la casa» (At 2,2).

È lui “la promessa del Padre” (cf. At 1,4), annunciata da Gesù: «Sarete rivestiti di potenza dall’alto» (Lc24,49); «Riceverete la forza (dynamis) dallo Spirito Santo» (At 1,8); «Sarete battezzati in Spirito Santo tra non molti giorni» (At 1,5).

È lui la Parola infuocata. All’immagine del vento si aggiunge quella del fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cf. Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco, Dio consegna la sua parola viva ed energica (cf. Eb 4,12). Il fuoco esprime simbolicamente l’azione di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, sostenere le opere umane, purificandole e rivitalizzandole. 

Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cf. 1Cor 1,27). «Questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già quello che gli abbiamo chiesto» (1Gv 5, 13)

La Chiesa pertanto nasce dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e si spande in tutta la creazione. Si realizza così la nuova alleanza, fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide nella carne dell’uomo.

La parola degli Apostoli, ripiena dello Spirito del Risorto, diventa una parola nuova, diversa, che tutti possono comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue (cf. At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, ossia della lingua universale che anche gli analfabeti possono capire. 

Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce armonicamente le diversità, ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito Santo è l’artefice della comunione e l’artista della riconciliazione. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.

È lui la perfezione del compimento. Luca inizia il racconto col dire, letteralmente, che il giorno di Pentecoste “si compiva”. Si realizzava il piano di Dio nella storia. Così nel vangelo leggiamo: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto» (Lc 1,57), giunge così il momento del compiersi della promessa dell’angelo a Zaccaria. Nella sinagoga di Nazaret, Gesù afferma: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,21). Infine il Risorto dice ai suoi: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me» (Lc 24,44). 

Invochiamo lo Spirito Santo e affidiamoci tutti a questo abissale amore di Dio.


[1] Bernardo di Chiaravalle, IV Sermone per la Quaresima, 3.