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In vino veritas

Omelia nella Messa della II domenica del Tempo ordinario
chiesa Cattedrale – Ugento, 15 gennaio 2023.

Cari fratelli e sorelle, 
cari viticoltori, 
il Convegno sul tema “A luna e a vigna, lu focu e lu mjeru”, che si è svolto prima di questa celebrazione eucaristica, e la ripresa del rito della benedizione della palma di san Vincenzo sono un richiamo a un’antica tradizione popolare che è opportuno rinverdire per la sua forma celebrativa strettamente aderente alla vita. Sono temi che ritornano nei grandi scrittori come esperienze e frammenti di vita. Cesare Pavese, ad esempio, nella sua ultima opera, La luna e i falò, racconta la nostalgia del ritorno alle origini, il bisogno di ritrovare le proprie radici, il desiderio di rivedere i luoghi dell’infanzia. Un paese indica una comunità, un luogo per non essere soli, immaginando che ogni piccola cosa resta ad aspettarti. Alla fine, però, si scopre che il passato è irreparabilmente perduto. Il tempo ha travolto e cancellato i ricordi e la brama dei vecchi amori. Un vero ritorno è impossibile, o almeno non è mai come quello sognato. Non c’è più nessuno ad accogliere, nessuno di quelli si desiderava vi fossero. Anche il legame tra il vino e il fuoco è ben radicato nel tempo. Hanno una storia millenaria e stanno bene insieme in quanto nel loro carattere sono sinonimi di vita, temperamento, potenza, eleganza. «Il vino – afferma E. Hemingway – è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo».

La ripetizione del rito e il legame con natura e la vita 

La ripresa di questa tradizione non vuol dire coltivare la nostalgia del passato, ma esprime il desiderio di tenere fermo il legame tra rito e vita. Fin dall’antichità, ogni cambiamento era celebrato con azioni rituali in quanto parte integrante della vita. Il rito era la forma esteriore di un sentire interiore, carico di amore e rispetto, organizzato in base alle esigenze del tempo. La ripetizione del rito non aveva soltanto un riferimento ciclico, una sorta di eterno ritorno dell’identico, ma serviva a misurare la profondità del legame dell’uomo con il tempo, la natura, l’esistenza. Il rito, infatti, contiene il segreto della novità della vita. «È ciò che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore»[1].

Al contrario, la nostra società, avendo perso la dimensione sacrale e il legame con la natura, ha, per così dire, “laicizzato” il rito, e lo ha reso solo un modo di fruire il tempo come bene di consumo. Tutto appare identico e sempre uguale a se stesso. Corriamo tutto il giorno per arrivare la sera stanchi e iniziare a pensare al giorno successivo. Ci riposiamo nei giorni festivi e nei periodi delle festività previste dal calendario. Viviamo aspettando con ansia i meritati giorni di ferie e di riposo. E così si continua, anno dopo anno, in attesa della pensione. 

Siamo tanto impegnati a vivere la nostra quotidianità da non accorgerci del cambiamento delle stagioni. Se ce ne accorgiamo è perché dobbiamo organizzare le vacanze o preparare il guardaroba per una stagione diversa. Ma nel profondo, le stagioni sono tutte uguali e la nostra vita è sempre la stessa. Abbiamo in parte perso la capacità di osservare il mutamento delle stagioni e, soprattutto, la sensibilità ad essere armonizzati e in sintonia con le energie stagionali e i diversi periodi dell’anno. Per questo, nella nostra vita frenetica, riemerge il bisogno di riscoprire la tradizione antica dei riti e delle feste legati al ciclo della natura.

Significativo è il fatto che, nel 2003, la conferenza generale dell’UNESCO ha adottato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, ratificata dall’Italia nel 2007. Trentun anni dopo l’istituzione della celebre lista dei siti di eccezionale importanza culturale o naturale, l’UNESCO ha deciso di riconoscere, proteggere e promuovere i beni intangibili, come le espressioni orali, le arti dello spettacolo, le pratiche sociali, i riti e le feste, l’artigianato tradizionale, le conoscenze e le pratiche sulla natura. I beni immateriali, infatti, rappresentano la diversità e la creatività umana di fronte alla globalizzazione. La loro comprensione aiuta a instaurare il dialogo interculturale e incoraggia a mantenere il rispetto reciproco dei diversi modi di vivere.

In questa prospettiva, si colloca la riscoperta della “dieta mediterranea”, nella quale il vino e l’olio hanno un posto di rilievo. La cultura della dieta mediterranea è indissolubilmente legata al concetto stesso di biodiversità e sostenibilità, essendo caratterizzata da un’infinita varietà di produzioni adattate nei secoli alle particolari condizioni ambientali e climatiche di ogni regione del bacino mediterraneo. Essa prevede un impiego meno intensivo di risorse naturali rispetto a un modello alimentare basato sul consumo di carni e grassi animali. Il saper gestire la natura in modo sostenibile significa dare vita ad un patrimonio culturale, dove natura e cultura sono coniugate e integrate tra di loro.

La ripresa di questa tradizione rituale legata alla vite e al vino si pone come una modalità di venire incontro a questo bisogno antropologico, consapevoli dell’importanza di richiamare la serie di riferimenti culturali e religiosi insiti nella coltivazione della vite e nella produzione del vino, fondati sull’idea che essi sono doni di Dio, illustrano il senso e il valore dell’amore sponsale, rinviano al tema delle nozze mistiche.

La vite e il vino, doni di Dio

Nell’antichità greca e romana il vino era considerato il nettare degli dei ai quali veniva offerto in libagione. Secondo la mitologia fu Dioniso (Bacco per i latini), divinità dell’ebbrezza e della liberazione dei sensi, a donare la pianta della vite. in un passo dell’Odissea, Omero racconta di un particolare vino prodotto in Tracia, luogo originario del culto di Dioniso, descrivendolo un vino folleincorruttibile, ma soprattutto salvifico, grazie al quale Ulisse, l’uomo dal multiforme ingegno, riesce ad ingannare Polifemo. Il vino e la vite simboleggiavano la vitalità frenetica dell’esistenza e l’essenza stessa della vita e dell’immortalità. Divenne così la bevanda più popolare nell’antico Mediterraneo. Tutti potevano bere vino, dall’imperatore allo schiavo.  Il consumo di vino fu istituzionalizzato nei banchetti (simposio / convivio)[2]. Non bisognava abusarne perché avrebbe potuto comportare l’ubriachezza fisica e mentale[3]. Talvolta era prescritto come medicamento. Nel Salento, la coltivazione della vite è attestata già attorno al 2000 a.C. e, insieme all’olivo, è divenuta fino ai nostri giorni parte integrante dell’economia del territorio[4].

Numerosi sono i riferimenti all’immagine della vite e del vino presenti nella Bibbia. Noè, dopo il diluvio, diventa coltivatore della terra e il primo uomo a piantare la vite, a bere i suoi succhi inebrianti (cf. Gn 9,20-21). Mosè invio alcuni esploratori a perlustrare il territorio della terra promessa. Questi tornarono portando un tralcio di vite con un grappolo di uva a dimostrazione dell’abbondanza e della ricchezza della terra di Canaan (cf. Nm 13,17-24). Nei profeti e nei salmi l’immagine della vite si riferisce abitualmente al popolo d’Israele (cf. Ger 2,21; Ez 15,2-6; 19, 10-14; Sal 80,9-16) e assurge a simbolo di benessere, fecondità, benedizione, pace e gioia (cf. 1Re 5,5). La distruzione della vite era il segno più crudo di una calamità disastrosa (cf. Sal80,8-16; Ez 19,10-14). La vite rappresenta una vita abbondante e la gioia che da essa scaturisce. Rispecchia il desiderio di fertilità e bellezza. È segno di devozione per i frutti dello spirito e di protezione dal male. Pienezza, saggezza, giovinezza, maturazione, prosperità, sono tutte immagini associate alla vite. Sacrificio, fede e buona volontà sono le qualità richieste perché la vite dia frutto.

Il Nuovo Testamento richiama la parabola evangelica relativa alla coltivazione della vigna e alla remunerazione degli operai (cf. Mt 20,1-16; Mc 12,1-12) e quella dei vignaioli omicidi (cf. Mt 21,33-39). In questo caso, la vigna diviene un simbolo negativo, anche se rimane segno del futuro regno escatologico. L’arte funeraria cristiana propone sulle tombe i motivi della vigna per alludere alla pienezza dei beni paradisiaci, al refrigerio celeste e all’immortalità che attende il beato. 

Molti grandi pittori hanno ripreso questi temi culturali e biblici. Tra di essi è sufficiente richiamare i seguenti: il “Bacchino malato” di Caravaggio, che tiene in mano l’uva, sito presso la Galleria Borghese di Roma; il “Baccanale degli Andrii” di Tiziano, custodito al Museo del Prado di Madrid; l’”Ebbrezza di Noè” di Michelangelo, che si trova nella Cappella Sistina. 

Segno di amore sponsale

La vite contiene in sé la vita. Da secoli, i contadini non piantano semi, ma ricorrendo a tralci preesistenti e a un sistema di propagazione per talea. Per questo il Vangelo di Giovanni presenta Gesù stesso, come vite e fonte della vita vera e autentica (cf. Gv 15,1-11). È lui, la vite che infonde la vita, la linfa che permette al tralcio di dare i suoi frutti. Il riferimento al tralcio secco che viene bruciato richiama un passo del profeta Ezechiele (cf. Ez 15,16).

Questa linfa vitale è segno dell’amore sponsale e, talvolta, serve ad esprimere il contrasto fra l’amore di Dio e il non amore del popolo. Dio ama continuamente e ostinatamente Israele, ma il popolo non risponde, dimentica Dio, gli preferisce le divinità straniere che sembrano assicurare la pioggia per i campi e la fertilità degli animali. Così la vigna, invece di produrre uva buona, produce uva selvatica (cf. Is 5, 1-7).

Nella celebre opera, In vino veritas, Kierkegaard discute il rapporto d’amore tra l’uomo e la donna[5]. I temi che vengono sviluppati sono quelli tipici del discorso kierkegaardiano sull’amore umano: la contraddittorietà del rapporto uomo-donna, il dissolversi della figura femminile in una “infinità di finitezze”, il matrimonio inteso come alternativa alla dispersione che caratterizza la vita estetica. In quest’opera, il filosofo danese definisce l’amore un enigma, un aforisma incompreso, qualcosa di cui non conosciamo l’origine. L’oggetto stesso dell’amore, che è l’amabile, non può essere spiegato, perché esso stesso è l’aggancio tramite cui l’amore si riveste da sé. L’amabile è il “perché” – in quanto origine – e l’amore è il “come” in quanto conseguenza. 

Mistero di unione mistica

L’immagine della vite serve anche a richiamare l’amore mistico. Il primo miracolo compiuto da Gesù alle nozze di Cana (cf. Gv 2,3-10) riguarda la trasformazione dell’acqua in vino, segno della convivialità e dell’intimità dell’amore. È il primo dei segni, l’archè, il principio, l’inizio che deve condurre al segno supremo della croce, luogo dell’amore di Dio che si manifesta “fino alla fine”. «A parte il miracolo, – scrive sant’Agostino – il contesto stesso adombra qualche mistero, qualche sacramento. Bussiamo perché ci apra e c’inebri del vino invisibile. Anche noi eravamo acqua e ci ha convertiti in vino, facendoci diventare sapienti; gustiamo infatti la sapienza che viene dalla fede in lui, noi che prima eravamo insipienti»[6].

Il segno di Cana ci conduce a contemplare la sapienza e la ricchezza dell’amore che si consuma nella “cella vinaria”, richiamata dal Cantico dei Cantici: «Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 2,4). Secondo l’interpretazione di Origene, quel luogo intimo è l’anima del credente dove si intreccia l’unione mistica con il Verbo: «Sia la Chiesa di Cristo, sia l’anima che si tiene stretta al Verbo di Dio chiede che l’introducano nella casa del vino. In essa si affretta ad entrare sia la Chiesa sia ogni anima che desidera ciò che è perfetto, per godere della sapienza e dei misteri della scienza, quasi dolcezza del banchetto e gioia del vino»[7].

Nell’interiorità dell’amore si radicano tutte le nostre scelte di vita. Nella cella vinaria si scopre e si sperimenta l’amore come agape. In opposizione all’amore come passione indeterminata e ancora a una ricerca ripiegata su di sé, nella cella vinaria «l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca […]. L’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità. Sì, amore è “estasi”, ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio»[8].

Dal tema della vite e dell’uva prende forma l’immagine del “torchio mistico” (in latino torculus Christi) che raffigura Gesù nel tino dell’uva, mentre la croce diventa la pressa, il torchio dalle cui ferite esce il sangue e cola in un recipiente come fosse vino. Questa visione fu presto utilizzata negli scritti dei Padri. Il primo riferimento risale a Papia di Gerapoli (I-II sec.): «Verranno giorni in cui sorgeranno vigne, che avranno ciascuna diecimila viti; ogni vite avrà diecimila tralci; ogni tralcio avrà diecimila bracci; ogni braccio diecimila pampini, ogni pampino diecimila grappoli; ogni grappolo diecimila acini; ogni acino, spremuto, darà venticinque metrete di vino»[9]

Il Vescovo Asterio di Amasea, nelle sue omelie, paragona l’altare al torchio pronto per la pigiatura: «La vite è stata vendemmiata e l’altare, come un torchio, è stato riempito di grappoli[10].  Il tema del torchio mistico è caro anche a sant’Agostino. Così egli scrive: «Il primo grappolo d’uva schiacciato nel torchio è Cristo. Quando tale grappolo venne spremuto nella passione, ne è scaturito quel vino il cui calice inebriante quanto è eccellente!»[11].  Una sequenza, attribuita ad Adamo di san Vittore (XII sec.), recita: «Sotto il torchio sacro della croce, l’uva scorre nel seno della Chiesa diletta: spremuta con violenza, cola il vino, e il suo liquore pervade di gioiosa ebbrezza le primizie della gentilità»[12]

Celebrando il sacrificio eucaristico gustiamo il vino divenuto sangue di Cristo, linfa del suo amore per noi. Con questa bevanda celeste egli disseta il nostro desiderio di pienezza di vita e di gioia e ci unisce alla sua persona, trasformandoci in essa. Il simbolo diventa realtà, e la realtà del tempo presente prelude alla gloria futura. La vita terrena si riempie della gioia inebriante che scaturisce dal frutto della vite, come pregustazione del banchetto celeste che si consumerà nella visione beatifica. Da quel convivio celeste, secondo il sommo poeta, «vien l’allegrezza ond’io fiammeggio; / per ch’a la vista mia, quant’ella è chiara, / la chiarità de la fiamma pareggio»[13].   


[1] A. de Saint Exupéry, Il Piccolo Principe, XXI.

[2] Lo stare distesi dei bevitori su lettini (klinai, κλῖναι) diede necessaria origine a coppe che potessero essere facilmente impugnate e sollevate da terra, come la larga e poco profonda kylix; mentre il più largo, capiente e sempre fittile cratere (κρατήρ) donde attingere il vino, era utilizzato onde mischiare la bevanda con l’acqua.

[3] Aristotele scrisse il Περὶ μέθης (Sull’ubriachezza) ora perduto; Plinio il Vecchio, riprendendo l’espressione popolare di Oino Aletheia, coniata dal poeta greco Alceo di Mitilene, rimarcò come il vino riveli verità che è meglio tacere («In vino veritas»); l’originale cita: «La verità è proverbialmente attribuita al vino», («Vulgoque veritas iam attributa vino est»).

[4] Le zone più rappresentative e di maggior pregio dell’attività enologica si trovano nel Nord Salento, Salice Sal.no, Veglie, Campi Sal.na, Guagnano, Cellino S. Marco, Sandonaci, Brindisi e dintorni, Sava, Torricella, Montemesola, Manduria, Le varietà di vitigni autoctoni del Salento sono: il negroamaro, il primitivo, la malvasia bianca, la malvasia nera e l’aleatico.

[5] Si tratta del primo dei cinque scritti che compongono l’opera polifonica Stadi sul cammino della vita (1845), una brillante rivisitazione in chiave moderna del Simposio platonico. Cinque commensali si danno appuntamento per un banchetto e finiscono a discutere d’amore: ritroviamo Johannes, già autore del Diario del Seduttore, Victor Eremita, l’editore di Enten-Eller, Constantin Constantius, autore de La ripetizione, un Giovane e uno Stilista di moda. Se il Giovane inesperto guarda all’amore e al rapporto tra i sessi con un’idealità che poco si concilia con la concretezza della vita, lo smaliziato Constantin racconta invece la storia di un’esperienza reale declinandola nell’ottica disimpegnata del gioco, dello scherzo, mentre Victor discetta della trasformazione spirituale che il rapporto con il femminile causa nell’uomo. Il tono diviene solo apparentemente frivolo quando lo Stilista dichiara che la natura femminile si rivela autenticamente solo nel rapporto con la Moda, e infine Johannes il Seduttore si cimenta in una lode della donna, disconoscendo quanto detto dai suoi convitati: «Il sesso femminile, lungi dall’essere più imperfetto di quello maschile, è al contrario il più perfetto».

[6] Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 8,3.

[7] Origene, Commento al Cantico dei Cantici, III, 2,4.

[8] Benedetto XVI, Deus caritas est, 6.

[9] Papia di Gerapoli, Frammenti, I frammento, in IreneoAdversus haereses, V, 33,3-4.

[10] Asterio di Amasea Homilies I-XIV.

[11] Agostino, Esposizione sul salmo 56,2, 4,2.

[12] La citazione si trova in J. Hant, La Divina Liturgia. La via dei simboli, Arkeios, 2000, p. 56. 

[13] Dante Alighieri, Paradiso, XX, 88-90.