
Omelia nella Messa Crismale, mercoledì santo,
Cattedrale Ugento, 13 aprile 2022.
Cari sacerdoti, diaconi, consacrati, consacrate e fedeli laici,
in questa Messa crismale il sacerdozio di Cristo risplende in tutta la sua bellezza e il suo valore salvifico. In lui, si concentra tutta la ricchezza del sacerdozio. Cristo, infatti, è il tempio, l’altare, la vittima e il sacerdote. Egli è l’unico tempio, perché la sua umanità è il “luogo” in cui Dio e l’uomo si sono incontrati per sempre. La sua croce è l’altare su cui si celebra il vero sacrifico. Il suo corpo immolato è la vittima sacrificale, l’ostia pura e santa[1]. Egli è il sacerdote che rimane per sempre perché, risorto dalla morte, non muore più.
Il sacerdozio di Cristo rimane lo stesso «ieri, oggi, sempre» (Eb 13,8) e lungo queste tre direttrici si esplica nel tempo e nell’eternità il suo sacerdozio e si manifesta nella varietà e molteplicità dei ministri ordinati. Mutano le contingenze storiche, l’essenza però rimane in ogni tempo in tutti i sacerdoti perché la sacra ordinazione crea «un legame ontologico specifico che unisce il sacerdote a Cristo, sommo ed eterno sacerdote e pastore»[2] a fino a configurarlo quale immagine vivente e «ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo pastore»[3].
Sacerdote per sempre
Cristo è eterno sacerdote in una triplice accezione: in quanto Verbo incarnato, in quanto Redentore, e in quanto possiede un sacerdozio glorioso. In riferimento al primo aspetto, l’unione ipostatica rimane per sempre. Il documento sulla liturgia del Concilio Vaticano II afferma: «Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti. Egli unisce a sé tutta l’umanità e se l’associa nell’elevare questo divino canto di lode»[4]. In riferimento al mistero pasquale, la Lettera gli Ebrei attesta che il sacrificio di Cristo è avvenuto «una volta per sempre» (Eb 9,29). L’ephapx si realizza ogni volta (hosakis) come ripresentazione dell’unico ed eterno sacrificio. Per questo la liturgia canta: «Offrendo il suo corpo sulla croce, diede compimento ai sacrifici antichi, e donandosi per la nostra redenzione divenne altare, vittima e sacerdote»[5]. In riferimento alla sua dimensione gloriosa, «avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, Cristo si è assiso per sempre alla destra di Dio» (Eb 10,12) e «intercede per noi» (Rm 8,34).
Egli non è soltanto sacerdote per sempre, ma è anche sacerdote per tutti, nella sua persona sono raccolti i ministri ordinati di tutti i tempi. In quanto «rimane per sempre, Cristo possiede un sacerdozio che non tramonta. Così può salvare quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio, essendo sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7,24-25). Ecco il compito fondamentale di Cristo e di ogni sacerdote: intercedere. L’intercessore è un pontifex, un costruttore di ponti, uno che lotta con la forza inerme della mitezza contro la violenza dell’aggressore.
Sacerdote ieri
L’eterno sacerdozio di Cristo è presente nella storia e si manifesta attraverso la grande tradizione patristica che approfondisce il suo mistero teologicamente e nella testimonianza di molti santi sacerdoti che, con la loro vita esemplare, mostrano il suo valore e la sua efficacia.
Giovanni Crisostomo (350 circa-407) tra il 381 e il 386 scrive un ampio trattato Sul sacerdozio nel quale si diffonde sugli aspetti del ministero: predicazione della parola di Dio a tutto campo con scienza e coscienza; capacità di rapportarsi con i singoli e nei vari ambiti per illuminare, correggere, esortare, incoraggiare; consapevolezza della grandezza dei misteri ricevuti in consegna con tratti significativi sulla concreta realtà dell’eucaristia, come sul ministero della penitenza e dell’unzione degli infermi e sulla carità pastorale.
Sant’Ambrogio, in una breve lettera ai chierici milanesi (Lettere IV,17:81), scritta probabilmente tra il 393 e il 394 da Bologna o Faenza o Firenze, durante la sua assenza da Milano per non trovarsi costretto a ossequiare e in certo modo legittimare il sovrano usurpatore Eugenio, esorta alla fedeltà all’“ufficio”. La parola e il concetto di officium nella sensibilità romana erano attinenti alla coscienza personale e al bene comune, unificati nel perseguimento del proprio dovere. Ambrogio aveva meditato Gli uffici o I doveri di Cicerone e se ne era ispirato, ora confermando ora correggendo ora assumendo il pensiero morale di matrice stoica per elaborare il suo Gli uffici o I doveri dei ministri, ampio trattato di spiritualità sacerdotale e pastorale ministeriale. Ambrogio è intimamente pervaso da un alto senso della dignità della carica.
Agostino sviluppa il suo pensiero nel Discorso 46 a commento di Ezechiele (34,1-6), nelle due opere La dottrina cristiana, trattato sulla predicazione e La catechesi agli ignoranti, dove addita a uno scoraggiato diacono catechista il segreto di una comunicazione vitale della fede. Commentando le tre domande di Gesù all’apostolo Pietro (cfr. Gv 21,15-17) scrive la famosa espressione: «Sia impegno d’amore pascere il gregge del Signore».
Girolamo, in un’ampia lettera al vescovo Eliodoro di Aquileia sulla morte del nipote Nepoziano, giovane prete, scritto di consolazione ed esortazione, delinea amorevolmente la sua figura[6]. Due tratti sono particolarmente significativi. Il primo si riferisce al fatto che il giovane, «aveva fatto del suo petto la biblioteca di Cristo»[7]: Nepoziano, infatti, leggeva e rileggeva, studiava, gustava, assimilava, ricordava, acquisiva un sapere che gli parlava di Cristo. Meglio ancora, Cristo stesso parlava al suo cuore mediante le Scritture e i loro appassionati interpreti. Così la fede cordialmente pensata si fa meditazione e sapida teologia. Il secondo aspetto riguarda il suo amore per il culto. Nelle sue mani, infatti, «brillavano i vasi dell’altare», segno di amore a Cristo e di una dignitosa azione liturgica. Questi due particolari dicono molto del prete, ministro della mensa della Scrittura, ministro della mensa dell’Eucaristia.
Gregorio Magno lascia all’incipiente Medioevo il primo sistematico trattato pastorale. La sua Regola pastorale assume e illustra tematiche presenti fin da Gregorio di Nazianzo, attribuendo come virtù specifica e necessaria del pastore la prudentia, ossia la saggezza, per attivare scelte ragionevoli nella concretezza delle situazioni alla luce della fede e con un cuore ardente di carità pastorale. In tal senso è una frase significativa della Regola: «il governo delle anime è l’arte delle arti»[8], rielaborazione cristiana di una espressione presente nel Carmide di Platone in riferimento alla saggezza quale «scienza dei saperi»[9] in quanto li coordina e unifica.
Gregorio è la sintesi dell’antichità e il maestro di ogni tentativo di riforma della vita sacerdotale: dalla riforma gregoriana, si pensi a Bernardo con il suo La considerazione a papa Eugenio III e ad Aelredo di Rivaulx nella Preghiera pastorale, a quella tridentina, in particolare con il Vademecum per i parroci di Niccolò Stenone, fino ad un’ampia letteratura contemporanea che sottolinea la figura del prete in cura d’anime nel dilemma tra il suo essere «vaso di coccio» e il «tesoro» di grazia di cui è ministro (cfr. 2Cor 4,7; Mt 13,44). Poeti e scrittori si sono cimentati a parlare del sacerdozio: Manzoni richiama la difficoltà e la grandezza del sacerdote nel suo compito di «amare e pregare»[10]. Altri autori, come Archibald Joseph Cronin, Georges Bernanos e Nicola Lisi, Victor Hugo e Fabrizio De André avvertono, ciascuno a suo modo, nel pastore d’anime una vocazione di sconcertante paternità.
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nella sua opera La Selva, basandosi sull’autorità di san Tommaso d’Aquino, delinea la figura del sacerdote come colui che, per il suo ministero, supera in dignità gli stessi angeli e, per questo deve aspirare a una maggiore santità con una dedizione integrale alla gloria di Dio[11]. San Tommaso, infatti, ricorda la necessità che i ministri abbiano una vita santa: «In omnibus ordinibus requiritur sanctitas vitæ»[12] e, nel Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, afferma: «Coloro che si dedicano ai ministeri divini ottengono una dignità regale e devono essere perfetti nella virtù»[13].
Accanto alla dottrina, c’è anche la testimonianza luminosa di tanti sacerdoti e vescovi santi che hanno illustrato con la loro vita la bellezza del sacerdozio. Nel terzo secolo, Cipriano, e dal quarto in poi Martino, Ambrogio, Agostino, Severino, Cesario hanno illuminato con la dottrina e l’esempio di vita le comunità affidate a loro. Lungo il corso della storia, numerosissima è la schiera di santi sacerdoti confessori, educatori, martiri. Per tutti vale il grido dello scienziato Enrico Medi: «Sacerdoti, ve ne scongiuriamo, siate santi! Se siete santi voi, noi siamo salvi. Se non siete santi voi, noi siamo perduti».
Sacerdote oggi, nella “terra di mezzo”, “l’era del vuoto”
Se quanto ho detto fin qui costituisce il fondamento teologico e testimoniale del sacerdozio, rimane la domanda su come deve essere espletato oggi il sublime e difficile ministero sacerdotale. È necessario, infatti, che il mistero eterno di Cristo sacerdote incontri le condizioni storiche in cui il popolo di Dio è immerso nel tempo. Riprendendo due immagini che possono aiutarci a comprendere l’attuale situazione sociale e culturale.
La prima è quella proposta dal sociologo Gilles Lipotevski secondo il quale, il nostro tempo sarebbe caratterizzato dall’individualismo. La nostra sarebbe dunque “l’era del vuoto”. La direttrice principale si muove all’interno del processo globale di personalizzazione dove sono presenti nuove finalità e nuove legittimità sociali: valori edonistici, culto della persona, disarticolazione della disciplina civile, ma anche rispetto delle differenze, libera espressione, autonomia democratica[14].
La seconda immagine è quella “terra di mezzo”, proposta dai romanzi di John Ronald Reuel Tolkien, per indicare che la nostra società è come un luogo in cui si incontrano e si scontrano culture differenti, mentre va velocemente realizzando una transizione storica e metafisica. Siamo destinati a vagare in una “terra di mezzo” da cui non possiamo fuggire, ma nella quale è difficile orientarsi. Siamo alla ricerca di un nuovo ordine mondiale, una nuova “visione del mondo”, una nuova sintesi di pensiero che ci permetta di porre alcuni valori a fondamento della vita personale, sociale ed ecclesiale.
In modo più specifico, potremmo dire che ci sono alcune sfide da affrontare. Innanzitutto, la duplice difficile questione climatica e migratoria. A queste, si è aggiunto il clima di incertezza provocato dall’impalabile circolazione del virus che, con le sue continue varianti, impedisce il normale proseguimento della vita sociale ed ecclesiale. Essa, di fatto, impone un ritmo caratterizzato da “stop and go”, pausa e ripresa, avvio e sosta, interruzione e ripartenza. Infine, vi è la guerra scoppiata nel cuore dell’Europa con i suoi drammatici risvolti sul piano sociale, economico e umanitario, e soprattutto a livello personale e psicologico per l’incertezza circa il prossimo futuro e i nuovi equilibri mondiali.
In questo scenario Il cammino sinodale, inteso come ricerca del giusto “stile sinodale”, che abbiamo intrapreso in questi mesi e che caratterizzerà ancora per molto tempo il nostro impegno ecclesiale, è l’opportunità per prendere coscienza delle sfide e cercare di affrontarle insieme. Sul piano pastorale, occorre rendersi conto che, alle molteplici variazioni del virus, si diffonde una sempre nuova “mutazione del nichilismo”. La nuova forma si presenta come un nichilismo consapevole, fluido e libertario di fronte al quale la Chiesa e il suo messaggio appaiono obsoleti, relegati a una stagione ormai del tutto trascorsa.
In realtà, se il credente è capace di creatività e inventiva è possibile ridiventare forza propulsiva per il futuro. Ciò che occorre è una sorta di “rinascita cristiana” per la quale occorre munirsi di una solida dottrina che sappia cogliere le dinamiche e i riferimenti culturali, anche quelli nascosti o inoculati subdolamente e in modo inavvertito, per essere «sempre pronti a dare ragione della speranza che è in noi» (1Pt 3, 15). Dovremmo abituarci a un quotidiano esercizio di ascolto, di dialogo e di confronto in modo umile e rispettoso, ma fermo e tenace.
L’atteggiamento dialogico deve essere accompagnato da un nuovo stile pastorale fatto di sapiente e paziente attesa, di un nuovo dinamismo intriso di forte passione, di una presenza quotidiana che si esprima come vicinanza, prossimità, condivisione delle gioie, delle speranze e delle tristezze dell’uomo e della società attuale[15]. Lo stile pastorale deve fondarsi sulla memoria e sulla ricchezza della propria identità culturale e della tradizione religiosa e deve comunicare gioia e fiducia nel futuro. Bisogna evitare di ritirarsi e di arroccarsi in un passato che non esiste più, ma bisogna anche stare attenti a non sciogliersi in una realtà indefinita che tende ad amalgamare persone e valori in una sorta di “fusione mediatica” senza distinzione e senza differenza.
Sul piano sociale occorre avere occhi per vedere e leggere la realtà, investire in bellezza dove esplode il degrado. Ormai è evidente che la società è attraversata da fenomeni di corruzione da parte di associazioni criminali che mettono in atto attività di approvvigionamento della sostanza stupefacente, organizzazione di spaccio, usura, “pizzo” imposto ai commercianti con modalità violenta e, in alcuni casi, persino con “scambi” elettorali. Bisogna avere orecchie per ascoltare i bisogni reali delle persone, bocca per parlare loro di legalità, mani e piedi per portare soccorso dove il bisogno si fa più urgente.
Soprattutto bisogna agire sul piano educativo. Secondo sempre il sociologo Gilles Lipovetsky, la sfida forse più importante, benché più “snobbata”, è l’educazione. Essa, oggi, «è centrata sull’ascolto ed è volta a promuovere l’autonomia dei ragazzi. Questo è sicuramente positivo ma reca in sé anche degli aspetti negativi. Ormai ha trionfato la figura del bambino-re, in cui è lui a condurre il gioco. Non va bene però che il bambino faccia solo ciò che vuole o preferisce perché l’educazione non è questo. Anzi così si celebrerebbe il suo fallimento». Occorre, invece, «superare la logica del totale liberalismo, pur mantenendo una via di mezzo tra disciplina e autonomia. Pertanto, l’educazione deve ritrovare la figura dei maestri e le loro capacità di seduzione, ma anche incentivando il lavoro sulle pratiche artistiche. Attraverso il teatro, per fare solo un esempio, si incentiverebbe l’invito alla lettura. Inoltre con le pratiche artistiche si esprime se stessi e incoraggiandole tra i giovani si fornirebbero a loro gli strumenti per poterlo fare».
In definitiva, il discorso educativo non corre più secondo i verbi “costringere, ordinare, disciplinare o reprimere”, ma nella linea dei verbi “piacere e colpire”[16]. Occorre impegnarsi a promuovere una “prassi seduttiva, empatica e propositiva” in collaborazione con tutte le istituzioni, associazioni e agenzie educative presenti nel territorio e, in primo luogo con la famiglia e la scuola. Non bisogna dimenticare che l’educazione, come diceva don Bosco, è “cosa del cuore”. Occorre avvicinarsi con amore alle persone soprattutto alle nuove generazioni, soccorrerli nel loro disagio sociale con forme di aggregazione che stemperino dove esplodono reazioni violente, rabbia, rancore, desiderio di distruzione.
Cari sacerdoti e cari fedeli, partecipi del sacerdozio ministeriale e del sacerdozio comune, non stanchiamoci di rivolgerci al Signore con le parole della Preghiera Eucaristica V/3: «Fa’ che tutti i figli della Chiesa, nella luce della fede, sappiano discernere i segni dei tempi e si impegnino con coerenza al servizio del Vangelo. Rendici attenti alle necessità di tutti gli uomini, perché condividendo i dolori e le angosce, le gioie e le speranze, portiamo fedelmente l’annuncio della salvezza e camminiamo insieme nella via del tuo regno».
La Vergine de finibus terrae di cui oggi celebriamo la memoria accompagni, con la sua materna intercessione, il cammino spirituale di ciascuno di noi faccia e faccia fruttificare il dono del sacerdozio per la crescita spirituale e pastorale di tutta la nostra Chiesa ugentina.
[1] «Egli che è al tempo stesso sacerdote, sacrificio, Dio e tempio: sacerdote, per mezzo del quale siamo riconciliati, sacrificio che ci riconcilia, Dio a cui siamo riconciliati, tempio in cui siamo riconciliati. Tuttavia come sacerdote, sacrificio e tempio era uomo e solo, perché Dio operava queste cose in quanto uomo. Invece come Dio non era una Persona sola perché il Verbo realizzava le medesime cose con il Padre e lo Spirito Santo. Credi dunque con fede saldissima e non dubitare affatto che lo stesso Unigenito Dio, Verbo fatto uomo, si è offerto per noi in sacrificio e vittima a Dio in odore di soavità; a lui, insieme al Padre e allo Spirito Santo, al tempo dell’Antico Testamento venivano sacrificati animali dai patriarchi, dai profeti e dai sacerdoti; e a lui, ora, cioè al tempo del Nuovo Testamento, con il Padre e lo Spirito Santo con i quali è un solo Dio, la santa Chiesa cattolica non cessa di offrire in ogni parte della terra il sacrificio del pane e del vino nella fede e nell’amore» (Fulgenzio da Ruspe, Sulla fede: a Pietro, 22, 62).
[2] Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, 11.
[3] Ivi, 12 e 15.
[4] Sacrosanctum Concilium, 83.
[5] Messale Romano, Prefazio Pasquale V.
[6] Cfr. Girolamo, Lettera, 60.
[7] Id., Lettera, 52.
[8] Gregorio Magno, Regola pastorale, I,1.
[9] Platone, Carmide, 175b.
[10] A. Manzoni, I Promessi Sposi, 25.
[11] A. M. De Liguori, La Selva, Porto, Fonseca, 1928, p.6. L’Autore rimanda alle seguenti opere di san Tommaso d’Aquino: Summa Theologiæ, III, q. 22, a.1, ad. 1; Summa Theologiæ, II-II, q. 184, a. 8; Summa Theologiæ, Supl. q. 36, a. 1; Super Heb. c. 5, lec. 1.
[12] Id., Summa Theologiæ, Supl. q. 36, a.1.
[13] Id., IV Sent. d. 24, q. 2.
[14] Cfr. G. Lipotevski, L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo, Luni Editrice, Milano 2013.
[15] Cfr. Gaudium et spes, 1.
[16] Cfr. G. Lipovetsky, Piacere e colpire. La società della seduzione, Raffaello Cortina, Milano 2019.