
«Questo lavoro è veramente innovativo»: così Mario Spedicato apre la presentazione del volume. Lo condivido anch’io questo parere.
La novità consiste nella proposta di comprendere «fasti e linguaggi sacri» della civiltà artistica religiosa, attestata nei secoli nelle chiese post-tridentine. La loro struttura, come le loro facciate e i loro altari, hanno un significato, dentro le forme del barocco leccese di quei secoli dell’età moderna. L’autore propone la lettura iconologica di tanta arte sacra che caratterizza il territorio salentino.
Lettura iconologica che non può sostituire quella iconografica, ma deve necessariamente integrarla se si vuole dare un senso pieno alle numerose manifestazioni artistiche di quel tempo, così diverse dal nostro ma pur presenti con la loro «religiosa magnificenza». Questa integrazione la intuivano come necessaria gli studiosi che negli ultimi decenni del Novecento hanno “scoperto” il barocco leccese nella sua ricchezza di esperienze e nelle sue evoluzioni dal Cinquecento al Seicento, con la sua tipicità che lo differenzia da quello di altre regioni di Italia e altrove. Mario Calvesi e Mauro Manieri Elia affermavano che in essa «vi era qualcosa in più che bisognava capire» (pp. 12-13).
Nella introduzione (pp. 11-20) Francesco Danieli precisa che l’iconografia descrive e cataloga criticamente il fatto artistico, l’iconologia lo interpreta alla luce delle scienze umane e della teologia. Quest’ultima fa comprendere le intenzioni religiose del committente e quelle dell’artista che ha inventato “immagini” per dare forma ai desideri religiosi o alle motivazioni devote dei committenti (p. 14). Sicché la lettura iconografica e iconologica possono aiutare a comprendere il pieno significato storico dell’opera d’arte sacra. Pertanto non si può trascurare il contesto storico della cristianità e precisamente il plurisecolare «processo della tridentinizzazione del Salento dal punto di vista storico, teologico e artistico» (p. 19).
La lettura iconologica dell’arte cristiana, avverte l’autore, corre però il rischio di attribuire a committenti e ad artisti idealità e sentimenti che non furono loro. L’interprete, infatti, può sovrapporre la sua cultura e le sue considerazioni personali possono far prendere «abbagli e imprecisioni». Ma il rischio può essere contenuto se anche in questa esegesi iconologica è rispettato il rigoroso metodo storico. I significati devono ritrovare riscontri nelle testimonianze coeve, nei riti celebrati, nei catechismi, nei testi dei numerosi scrittori di pietà, oltre in quelli dell’attenzione culturale e cristiana.
L’arte che è stata detta barocca, inclusa quella leccese, si colloca cronologicamente nei secoli in cui si verificò la riforma del cristianesimo europeo. E l’autore opportunamente percorre in maniera sintetica e chiara, il dibattito storiografico che si sviluppò dalla metà dell’Ottocento e puntualizza efficacemente che c’è stata una riforma precedente a quella protestante, tanto in Germania quanto in altri paesi, con varietà di modi e risultati. Così lo affermò Wilhelm Maurenbrecher nel 1880, modificando la visione schematica di Leopold von Ranke alla metà di quel secolo. C’era stata una “riforma cattolica” che non poteva essere contrapposta, semplicemente, al luteranesimo e al calvinismo e non meritava di essere detta “controriforma”. Quando poi la divisione confessionale dell’Europa divenne un fatto irreversibile, il concilio di Trento (1545-1563) fu considerato un riferimento dottrinale e disciplinare per i paesi rimasti nell’obbedienza papale e la dialettica confessionale caratterizzò la storia politica, culturale e religiosa dell’Europa. Hubert Jedin († 1980), con l’autorevolezza acquisita nella ricostruzione storica del Tridentino, ritenne semplicistico lo schema riforma (protestante) controriforma (cattolica) e concluse che tra i due mondi cristiani dell’occidente, quello riformato antipapista e quello cattolico preoccupato di contenerlo e di contrastare il contagio della riforma protestante, «non fu contrapposizione netta […] ma coesistenza di due linee spesso intrecciate tra loro» (pp. 16-18). Questa posizione la condivide il nostro Danieli, anche se il titolo del volume non lo esprime nettamente.
E per quanto riguarda l’arte sacra egli è convinto che «la Chiesa cattolica, durante e dopo il concilio di Trento, intuì l’importanza del linguaggio architettonico e figurativo come strumento di rinnovamento intraecclesiale quanto come arma antiluterana» (p. 16). Del resto le opere di Carlo Borromeo arcivescovo di Milano sulla costruzione delle chiese e la sua suppellettile (1577) e di Gabriele Paleotti arcivescovo di Bologna sulle immagini sacre e profane (1582) e di altri, sono espressive di quella cultura artistica che si diffuse in modo significativo nel mondo cattolico e influenzò committenti ecclesiastici ed operatori d’arte.
Pertanto Francesco Danieli conclude che nel Mezzogiorno non ci fu una vigorosa corrente riformatrice e tantomeno nella Terra d’Otranto, precedente al luteranesimo e al calvinismo, e che i riformatori protestanti non ebbero seguaci significativi. Qui la riforma protestante «non mise radici» al di là di qualche episodio e di qualche caso personale. Perciò la rigogliosa stagione artistica che caratterizzò la provincia dei due mari tra Cinquecento e Settecento trova la sua collocazione storica nel processo di tridentinizzazione del mondo religioso e culturale, realizzato da ordini religiosi e da vescovi. Questo è il vero contesto storico del così detto barocco leccese e dei suoi “fasti e linguaggi”.
Tanto è stato acclarato pure nel recente convegno leccese dell’ottobre 2017 Lutero in Terra d’Otranto. Nel quinto centenario dell’affissione delle 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg, i cui atti sono stati editi dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento. Come afferma il nostro Danieli, ad impedire ogni forma di infiltrazione di «contagi ereticali», i «vaccini» impiegati furono due: l’arte e il culto dei santi, intimamente connessi. Un binomio altamente compatibile con la sensibilità umana e il sentire religioso degli abitanti della terra salentina. Pertanto la storia religiosa ed ecclesiastica di questa provincia estrema non può essere collocata semplicemente nella dialettica tra “riforma e controriforma”, come si sviluppò in altre parti dell’Europa cristiana, confessionalmente divisa e guerreggiante. Da queste parti tale dialettica non ci fu.
La stagione artistica che esplose nel Salento fa parte di un processo più ampio. È l’arte nuova delle chiese e collegabile al rinnovamento tridentino. Di proprio il Salento registrò la concentrazione degli abitanti dagli insediamenti rurali a quelli più vicini e più sicuri e la costruzione di chiese più capaci di contenere questi gruppi che si andavano sviluppando. E si costruirono le chiese diverse, non più affrescate come quelle precedenti alla maniera orientale, ma ricche di altari ornati da colonne tortili e da statue di santi e di tele che li raffiguravano; chiese piene della luce del sole e altari che raccoglievano i colori luminosi delle campagne e dei giardini; i frutti della terra e del lavoro degli uomini ornavano le colonne degli altari insieme agli angeli e agli uccelli che salivano verso l’alto. Tutto questo insieme ornamentale esprimeva il dinamismo della vita dei cristiani, devoti e peccatori: gioia di vivere e gratitudine al creatore, pazienza nella fatica e paura per le malattie e la morte, attaccamento ai santi protettori e speranza nel Salvatore. Questo mondo di credenza e fantasia, di peccato e di grazia, trovò facile rappresentazione nelle mani di anonimi scalpellini che modulavano la docile pietra leccese, il tufo, il carparo e il legno (pp. 205-212).
In queste chiese “tridentine” i vescovi raccomandarono le celebrazioni liturgiche in rito latino e anche i religiosi nelle loro chiese svilupparono predicazione e attività sacramentale. A questi ultimi va riconosciuto il ruolo storico della educazione delle popolazioni bisognose di evangelizzazione vera e propria, a quelli di più antica presenza francescani, carmelitani e domenicani, a quelli più recenti cappuccini, gesuiti e altri che li seguirono.
In questo clima storico va collocata quell’arte che è stata detta «barocca». Si può dire che in questo cattolicesimo del Salento ci sono ottimismo realistico e carica sentimentale, natura e grazia, peccato e redenzione; elementi di quella antropologia teologica del tridentino, trasfigurati in questa provincia del Regno Napoletano tra Cinquecento e Settecento.
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Il volume di Francesco Danieli si articola in tre parti.
La prima riguarda la Recezione del tridentino in provincia di Terra d’Otranto (pp. 21-78), riletta «dal punto di vista storico, sociologico, teologico ed artistico». È il contesto storico del barocco leccese. Viene considerata in primo luogo la progressiva soppressione del rito greco e la latinizzazione del clero e della vita religiosa delle popolazioni (pp. 21-29) e poi la condizione delle diocesi salentine (pp. 30-34), del suo episcopato nel Cinquecento e oltre (pp. 34-37), il tentativo di riformare il clero con gli esiti tardivi della fondazione dei seminari (pp. 37-40), il ruolo importante degli ordini religiosi, infine le condizioni del laicato e delle aggregazioni confraternali (pp. 56-62), di cui in verità recenti ricerche ci hanno fatto conoscere interessanti sviluppi.
Circa la scomparsa del rito greco, che alla odierna sensibilità ecumenica suscita particolare attenzione, bisognerebbe conoscere la condizione reale delle comunità di rito orientale presenti nella provincia salentina. Sono significative, ad esempio, le informazioni di Leandro Alberti del 1525 e quelle di qualche vescovo come quelle di Alessandro Cesare Brusraghi del 1576, per quelle del suo territorio.
Abbiamo bisogno di conoscere la condizione del clero e della sua formazione, le modalità liturgiche e pratiche secondo le quali era condotta la cura pastorale dei fedeli. Nel menzionato convegno leccese è stato dato un notevole contributo da Pantaleo Palma. Ma bisogna pur avvertire che nel sentire di quelle popolazioni rimasero abitudini antiche nei confronti dei santi: esse li onorarono ancora nei sacrari antichi, quelli rupestri nelle campagne, sia pur latinizzati nelle loro rappresentazioni nelle chiese, perché rimasero padroni delle loro comunità parrocchiali. Il sentimento antico riemerse in altri modi e in tanti circuiti nuovi.
Molto rappresentativa del rinnovamento del mondo cattolico fu la fioritura dei chierici regolari, interpreti della indole evangelica e della missione apostolica del clero. Sono interessanti le notizie su Chiara D’Amato (1618-1693) del monastero di santa Chiara di Nardò e sul convento alcantarino di Galatone «fucina di riforma» (pp. 41-45). C’è da considerare il ruolo avuto nella recezione della dottrina del Tridentino, dei suoi decreti de fide e primo fra tutti quello sulla giustificazione considerato, a ragione, il capolavoro di quel concilio, da parte delle popolazioni quasi tutte analfabete. Fu decisiva, così ci sembra, la traduzione di quell’insegnamento dottrinale e morale che fecero monaci, frati e chierici regolari, con le prediche alle popolazioni devote e ai numerosi aggregati delle associazioni confraternali. Le devozioni che furono «inventate» dai francescani di ogni genere, domenicani, benedettini di ogni tradizione, teatini, gesuiti, vincenziani, passionisti e redentoristi, scolopi, attraversarono le generazioni dei cristiani dal Cinquecento al Settecento e oltre, senza confini territoriali, nel meridione italiano e come in ogni altro paese europeo[6]. Del resto dalle loro file spesso vennero gli stessi vescovi provenienti da lontano, nominati dal re spagnolo e dal papa romano.
Inoltre, nelle popolazioni salentine dei due mari, almeno fino a tutto al Seicento prevalse la paura dei turchi. Il segno dell’occupazione della città di Otranto (1480-1481) e delle contrade estreme, rimase a lungo, e il timore si ravvivò con le incursioni distruttive dell’estate 1537 ad Ugento e a Castro, dove poi ritornarono nel 1575. La vittoria di Lepanto (1571) e la devozione della devozione del Rosario, con le sue confraternite in ogni chiesa parrocchiale alimentarono la speranza nella protezione celeste, giacché le fortificazioni delle coste ioniche e adriatiche non riuscirono a tener lontane le scorrerie che si ripeterono nel corso del Seicento[7]. È un dato storico non considerato adeguatamente, che consente di capire più ampiamente la condizione sociale in età moderna, delle popolazioni salentine e adriatiche.
Non va dimenticato, poi, che carestie frequenti e periodiche pestilenze afflissero le masse contadine sbriciolate in tanti e piccoli casali. È la caratteristica della demografia salentina. Le popolazioni erano impotenti a difendersi dalle angherie degli amministratori del luogo, per conto dei baroni che tendevano a risiedere nel capoluogo leccese o, più lontano a Napoli, dove erano i centri della regia podestà.
L’insieme delle famiglie di questa gente immersa nella precarietà del vivere e nella speranza di salvarsi l’anima per sempre, ci piace immaginarla radunata nelle chiese matrici e in quelle dei conventi e delle altre erette a devozioni private, come i santi che guardavano dall’alto e intercedevano per tutti. Proprio queste chiese matrici, nel corso del Settecento, furono ricostruite più belle e più grandi delle precedenti, anche nelle piccole località salentine[8]. E fu una stagione culturale interessante che dalla capitale del regno si diffuse nelle periferie più lontane. Ad essa contribuirono quei non pochi preti che andarono a studiare nella capitale e diventavano dottori in varie discipline: essi non rimasero insensibili alle molte cose che abbellivano Napoli, e quando tornarono nei luoghi di origine entrarono a far parte del clero delle chiese “matrici” e promossero, sostennero e collaborarono a quelle grandiose imprese artistiche. Di questo clero addottorato, in verità, dovremmo saperne di più.
Protagonisti del rinnovamento tridentino nel Salento furono i vescovi. Sono tanti quelli che ricorrono nel quadro storico messo insieme da Danieli che si è avvalso della copiosa letteratura storica degli ultimi decenni. Anche nei lavori del ricordato convegno leccese del 2017 se ne è parlato: meritano attenzione il contributo davvero eccellente di Pietro De Leo su Pietro Antonio De Capua arcivescovo di Otranto (1536-1579) e quello di Angelo Lazzarini su Lucantonio Resta che diresse le diocesi di Castro, Nicotera e infine Andria, dove morì nel 1597.
È in questo ampio e complesso scenario della recezione del concilio di Trento che va posto il barocco leccese nella sua diversità e nella sua evoluzione. E in questa cornice storica che Danieli colloca l’analisi iconologica di sei monumenti dell’area ionica salentina.
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Nella seconda parte del volume sono dati cinque saggi di esegesi iconologica. Danieli intravede delle vere e proprie «catechesi barocche nelle chiese salentine», come traduzione figurativa della dottrina proposta dal concilio di Trento.
Il primo riguarda la facciata della chiesa di San Domenico a Nardò (pp. 78-101), restaurata nel 1580 dall’architetto salentino più ricercato Giovanni Maria Tarantino, nativo della città (morto negli anni 1611-1614). L’autore vi legge una «predica sull’uomo» (p. 86), attraverso la sua ripartizione e il complesso delle statue dei santi e delle figure umane poste negli interstizi tra le colonne. Queste sono di «omuncoli senza età e senza tratti somatici ripiegati su se stessi» a dire della condizione dell’uomo peccatore (apatico, mondano, meschino, saccente, ozioso, lussurioso contro natura, impaziente) che Dio può salvare con l’intervento benefico estraendolo dalla schiavitù morale. Solo due figure umane sono raffigurate in piedi, fiere e gioiose «nel portare i frutti della devozione divina». È «un invito visivo rivolto ai credenti affinché si riapproprino del proprio battesimo» (p. 101).
Il secondo saggio riguarda la tela della Madonna della Misericordia, di Donato Antonio d’Orlando (1562-1622 ca), nella chiesa collegiata di Galatone (pp. 101-113). Alla divina misericordia ricorrono semplici fedeli e confratelli, chierici, il marchese della città e il vescovo Fornari della diocesi, tutti consapevoli della condizione di peccatori, bisognosi di grazia divina. A loro favore intercede Maria, Cristo presenta la Padre la supplica e ferma il suo castigo. Lo Spirito aleggia dall’alto. È la catechesi sul peccato, sulla grazia e sulla divina giustificazione (pp. 106-107).
L’altare delle anime della cattedrale di Nardò, commissionato tra i confratelli dell’Orazione e morte, detta poi delle anime purganti, per l’autore è «un’autentica catechesi impressa nella pietra leccese» sulla sorte delle anime dopo la morte, il purgatorio per l’espiazione delle colpe e la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Questa catechesi è data con l’impostazione scenografica dell’altare, opera del più ricercato lapicida del Salento, il giovane Placido Buffelli di Alessano (1635-1693). Tutte le parti si muovono verso l’alto. Le sei colonne sono tortili e infiorate, le quattro paraste si alternano con otto santi patroni e intercessori. L’analisi dettagliata, accompagnata da un ricco apparato fotografico, ci fa scoprire l’universo delle devozioni e delle pratiche religiose, proposte per arrivare alla gloria celeste. È in questo contesto di sacra scenografia, la tela di Paolo De Matteis del 1698 esplicita il significato complessivo e si può ritenere la chiave di lettura dell’altare delle anime: gli oranti ancor viventi tra gli uomini vivono in comunione con quanti hanno concluso il percorso terreno. Ai devoti, poi, viene offerto un orizzonte di speranza e sono dati dei messaggi incoraggianti nella recita del Rosario, nello scapolare dei carmelitani, nella cintura di cuoio degli agostiniani, nel cingolo francescano dei terziari.
La tela dell’Immacolata firmata anch’essa da Donato Antonio d’Orlando, nella chiesa collegiata di Galatone, è per Danieli «un trattato di mariologia ed ecclesiologia» in immagine, dei primi del Seicento (pp. 149-172). Il dibattito teologico sul singolare privilegio della donna prescelta da Dio a diventare la madre di Gesù, era chiaro, già ai primi del secolo precedente, ma era ancora vivace la discussione sul modo con il quale la presentavano i predicatori. I fedeli, invece, affermavano in vario modo la devozione per Maria riempita di grazia divina fin dal suo primo istante d’esistere con fede semplice e sincera. D’Orlando la raffigura con tutte le espressioni affettuose ricorrenti nella sacra scrittura e attribuite a lei dagli scrittori cristiani più antichi. Il nostro autore le ricerca accuratamente e le presenta nella successione data dal pittore, per concludere che Maria «è il paradigma della nuova umanità, pienamente inserita nella storia della Chiesa pellegrina nel tempo, e ne costituisce anzi l’immagine più vera e il modello più sublime» (p. 166). Nella parte bassa della tela una serie di riquadri macabri, gli exempla, sollecitano compunsione per i peccati e intendono suscitare nel fedele devoto la paura applicata alle colpe (p. 161).
Nel quinto e ultimo saggio esegetico, il più breve (pp. 163-183), Francesco Danieli studia la grande tela della Cacciata dei mercanti dal Tempio della controfacciata della cattedrale di Gallipoli, opera del napoletano Nicola Malinconico (1693-1727) databile intorno al 1725. Si tratta della cacciata che Gesù fece nel tempio di Gerusalemme come riportata dai quattro evangelisti. La reazione contro il predicatore arrivato dalla Galilea fu l’ostilità definitiva contro di lui. La scena presenta la violenza della situazione e rende chiara la condanna della profanazione del tempio e del coinvolgimento dei chierici nelle attività commerciali. Il messaggio è rivolto a tutti a gli abitanti di Gallipoli, dove quell’attività era fiorente da secoli. Quella tela l’aveva voluta il vescovo della città Oronzo Filomarino (1700-1741), quasi un messaggio destinato al clero cittadino a sciogliere ogni connessione economica con il culto divino e a superare ogni collusione con i poteri economici della città e del suo territorio. Ma non sappiamo molto dei risultati del rinnovamento del clero secondo le varie riforme contenute nei decreti tridentini che miravano a far realizzare l’ideale del buon pastore per tutti i chierici ordinati. È certo, però, l’esempio dato dal vescovo che per quattro decenni rimase nella sua sede, come altri. Ad esempio nella vicina Ugento, il teatino Antonio Carafa si era fermato dal 1660 al 1704. La riforma tridentina del clero aveva bisogno di altro per modificare la rete delle relazioni della cristianità sacrale.
Queste sono per l’autore «cinque corpose omelie barocche di chiaro stampo tridentino» che provengono dalle interpretazioni di cinque gioielli del barocco leccese «andando al di là del dato meramente iconografico» (p. 270). È questo il modo innovativo di ricostruire il panorama storico e culturale di Terra d’Otranto, di scoprire il sostrato variegato e complesso su cui poggiano le vicende artistiche post tridentine della provincia. «Attraverso i vari passaggi, leggendo tra le righe di una storia plurisecolare», l’autore ha voluto «comprendere il dove, il quando, il come e il perché di alcuni capolavori dell’arte religiosa barocca nel Salento» (ivi).
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La terza parte del volume è interamente dedicato al santuario del SS.mo Crocifisso di Galatone. Essa emerge tra le chiese barocche del Salento, per bellezza e sontuosità (pp. 183-265). L’autore è sicuro che ogni suo particolare architettonico e operativo la rende un commento plastico e sintetico alla teologia cattolica post-tridentina, così come non avviene in nessun altro edificio sacro di Terra d’Otranto (p. 185).
Si può dire che la vicenda religiosa della città di Galatone è quasi interamente attraversata dalla storia di questa chiesa, diventata una componente fondamentale della sua identità nel corso dei secoli. L’autore ricostruisce la storia seicentesca della chiesa voluta dalle varie componenti della città, dal 1621 al 1697, quando fu aperta al culto. Fra’ Nicola da Lequile ne fu «l’ingegnere francescano». Giuseppe Zimbalo «scalpellino» e numerosi altri artisti furono chiamati per le rifiniture, nel corso del secolo seguente e nell’Ottocento. Stimolanti sono le annotazioni «teologiche» anche sui materiali impiegati, dalla pietra delle strutture architettoniche, al legname del fico e alla foglia d’oro per l’indoratura (pp. 205-211). Infine, è accurato lo studio della facciata, dell’aula liturgica con l’altare maggiore, le dodici cappelle e la sacrestia. Il grandioso e ricco altare maggiore; l’autore legge l’intero santuario come un manifesto della riforma post-tridentina (pp. 249-262), tutto incentrato nell’icona miracolosa del Crocifisso della pietà che a Galatone aveva una lunga tradizione cultuale e conservava chiari tratti orientali. Il fedele, peccatore e devoto, riceve efficaci messaggi sul senso della vita che sarà eterna nella gloria guadagnata da Gesù crocifisso per ciascuno e per tutti gli uomini, se con fede e con speranza camminano sulla strada percorsa dai santi che affollano l’altare, accompagnati dagli angeli e dalla Vergine addolorata. Insomma, nella gloria degli angeli e dei santi c’è posto per tutti: è «un messaggio iconologico che ricorre nell’arte cattolica dei secoli moderni» (p. 273), diverso dall’accentuazioni proprie della pietà cristiana luterana o calvinista.
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Le suggestioni interpretative che offre l’autore in questa sua rilettura dell’arte barocca, di questa pur ristretta area ionica di Terra d’Otranto, meritano speciali attenzioni.
In primis va riconosciuta a Francesco Danieli la formazione filosofica e teologica e ancor più l’informazione storica acquisita in istituzioni accademiche specializzate, nonché la sensibilità nei confronti della pietà popolare[11]; con questa attrezzatura culturale egli compie il passaggio dall’iconografia allo studio iconologico delle testimonianze artistiche salentine dalla fine del Cinquecento a tutto il Settecento. Di conseguenza egli supera l’orizzonte riduttivo della qualificazione “barocca” di queste opere d’arte, dal pregiudizio ideologico che ha caratterizzato la storiografia specifica. Condivido che proprio la lettura iconologica può dare il significato pienamente storico delle forme religiose di quei secoli, ancor presenti in tanti luoghi della provincia salentina.
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Nelle considerazioni conclusive del suo lavoro l’autore da un senso di attualità alla sua ricerca storiografica (pp. 271-273) si dice preoccupato del moltiplicarsi di musei diocesani di arte sacra e si domanda: non impoveriscono il territorio della sua memoria artistica e storica? Se ne va discutendo in verità in questi anni. Il rischio potrebbe essere contenuto se si sviluppasse il modello del “museo diffuso”. Un’altra preoccupazione riguarda l’odierna arte sacra. Quella che si va producendo rischia la deriva dell’astrattismo e della sua insignificanza per le generazioni della nostra epoca post-cristiana, come si va delineando nel Salento. Sarebbe utile, invece, rilanciare un autentico “simbolismo” nell’arte sacra, considerato l’impegno della nuova evangelizzazione delle comunità di antica tradizione cristiana: è l’unico modo per far intuire la bellezza divina e suscitare il desiderio di viverla. In verità di questi argomenti si va discutendo in Italia e altrove sia pure in ambienti cattolici ristretti.
Come si vede la cultura si ripropone come una “riserva di memoria” quanto mai desiderata. I suoi valori, infatti, possono umanizzare le relazioni umane nella società “globalizzata” che nella velocità dei cambiamenti si accorge di essere povera di prospettive e bisognosa di speranza.
Il volume di Francesco Danieli «merita di esser letto e proposto come un prodotto che offre una lettura nuova e più stimolante del barocco leccese», come afferma Mario Spedicato nella sua prefazione (p. 7). Quando ricerche del genere esploreranno altre aree della provincia salentina e tanta produzione artistica a noi pervenuta sarà riletta nel suo pieno significato storico, il “barocco leccese” potrà emergere come elemento identitario della storia di Terra d’Otranto. Valorizzato come testimonianza della sua cultura, i suoi «fasti e linguaggi sacri» saranno protetti dal turismo selvaggio e dalla riduzione a folklore insignificante.
Su questo «qualcosa in più che bisognava capire» Mario Manieri Elia è ritornato ancora negli anni seguenti scrivendo delle facciate del duomo e del convento dei celestini di Lecce: «L’aggressione ornamentale degli apparati plastici ed iconografici è così abile e intensa da rendere percepibile la duplicità di base dei messaggi solo all’esame di un osservatore competente ed attento: d’un chierico». L’esigenza di una lettura iconologica veniva ribadita (La riforma urbana, in Storia di Lecce. Dagli spagnoli all’Unità, a cura di B. Pellegrino, Ed. Laterza, Bari 1999, pp. 565-566).
«L’Idomeneo» (n. 24-2017), pp. 6-260. Di specifico interesse sono i contributi di Nicoletta Moccia, Lecce tra ‘500 e ‘600: da “Ginevra del Sud” a “Ninive convertita” (pp. 85-90) e di Maria Antonietta Manca, Esiste una Ginevra del Sud? L’etedorossia a Lecce tra ‘600 e ‘700 (pp. 91-98).
Modelli di santità veicolati nel Salento in prospettiva antiluterana, ivi, p. 180.
Cfr. A. Jacob, Testimonianze bizantine nel basso Salento in S. Palese (a cura di), Il basso Salento. Ricerche di storia sociale e religiosa (=Società e religione, 1), Congedo, Galatina 1982, pp. 65-69; Id., I graffiti nella cappella di san Nicola di Celsorizzo ad Acquarica del Capo e la riapertura del santuario nel Cinquecento, in «Bollettino diocesano S. Maria de Finibus Terrae» 80, 2017, pp. 321-327. Si veda pure S. Lisi, Per la storia del rito greco in Terra d’Otranto. Una lettera inedita dell’arcivescovo di Otranto del 1580, in «Brundisii res» 13, 1981, pp. 167-175.
E da ultimo Aldo Caputo, Profilo storico dei Domenicani nel Salento. I conventi di Galatina ed Andrano, in “Tutti contro uno”. Alessandro Tommaso Arcudi nel terzo centenario della morte, a cura di Mario Spedicato, Castiglione 2018, pp. 17-60 e particolarmente la interessante Lettera del Cardinale di S. Severina Giulio Antonio Santoro al Vescovo di Nardò Fabio Fornari circa l’osservanza del rito greco nella sua diocesi, del 16 agosto 1585, (pp. 59-60).
P. Palma, Contraccolpi antiluterani: la normalizzazione della popolazione di etnia bizantina nella Grecìa Salentina, in «L’Idomeneo» (n. 24-2017), cit., pp. 159-186.
Sui catechismi, ad esempio, dei gesuiti pre e post tridentini, cfr. A. Di Napoli, Gli “ipocriti” di Candido Malasorte Ussaro. La polemica antigesuitica di Alessandro Tommaso Arcudi (1699), in “Tutti contro uno” Alessandro Tommaso Arcudi, cit., pp. 247-249.
Inoltre Scrittori salentini di pietà tra Cinque e Settecento a cura di M. Marti. Introduzione di B. Pellegrino, Congedo ed., Galatina 12992.
Numerose sono le notizie fornite dal cappuccino fra’ Luigi Tasselli sulle scorrerie turche nel basso Salento nel corso del Cinquecento e del Seicento. Cfr. L. Tasselli, Antichità di Leuca, Eredi di Pietro Micheli, Lecce 1693. Da lui hanno attinto gli autori locali, maggiori e minori, di Terra d’Otranto. Le notizie, però, dovrebbero essere però accertate con ulteriori riscontri, ad esempio cfr. A. Simone, Salve. Storia e leggende, industrie grafiche italiane, Milano [1981], pp. 144-167; C. D’Aquino, Morciano di Leuca, Capone ed., Lecce 1988, pp. 63-81. Alle fonti notarili ha attinto Giovanni Cosi di cui Luigi Montonato ha dato precise indicazioni bibliografiche e metodologiche in Ne quid nimis. Studi in memoria di Giovanni Cosi (=I quaderni dell’Idomeneo, 30), a cura di M. Spedicato e L. Montonato, Grifo, Lecce 2017.
Circa il problema turco saranno utili F. Braudel, La Mediterranée et le mond mèditerranéen e l’époque de Philippe IIéme, Paris 1949; e per alcuni risvolti che caratterizzarono il territorio costiero del Mezzogiorno, limitatamente alla Puglia R. Caprara, Le torri di avvistamento anticorsaro nel paesaggio costiero pugliese, in La Puglia e il mare, a cura di C. D. Fonseca, Electa, Milano 1944, pp. 227-266.
Rinvio alla mostra dal titolo Le grandi chiese del Settecento, a cura di Gianluigi Marzo con introduzione di Salvatore Palese, in «Bollettino diocesano S. Maria de Finibus Terrae», 81, 2018, pp. 347-371.
P. De Leo, L’arcivescovo otrantino Pietro Antonio Di Capua tra suggestioni luterane e orientamenti ortodossi, in «L’Idomeneo» (n. 24-2017), cit., pp. 17-44.
A. Lazzarini, Lucantonio Resta: un vescovo tridentino accusato di luteranesimo, ivi, pp. 61-84.
F. Danieli, Laudario dei semplici. Antologia di componimenti religiosi salentini, Edizioni universitarie r omane, Roma 1998.
Cfr. F. Danieli, Casaranello e il suo mosaico. Per aspera ad astra, Edizioni Esperidi, Monteroni di Lecce 2018.