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Dalla mandorla amara, gettata in terra, rinasce un mandorlo in fiore.

Omelia nella celebrazione del Venerdì Santo
chiesa Cattedrale – Ugento – 15 aprile 2022.

Cari fratelli e sorelle,

il racconto della passione di Cristo secondo il Vangelo di Giovanni, in una mirabile sintesi, richiama non solo i fatti accaduti, ma suggerisce anche il loro valore simbolico. Non possiamo riflettere su tutto. Prendiamo in considerazione solo qualche aspetto.

Innanzitutto si tratta di fatti reali, eventi realmente accaduti. L’evangelista racconta con molta precisione i dettagli della sua passione. Il profeta Isaia, nella prima lettura, parla di un fatto mai visto e mai raccontato. Rimaniamo così sbalorditi di fronte alla volontà del Signore di aver voluto soffrire una passione così dolorosa. Accanto alla sofferenza fisica, c’è da considerare la sofferenza piscologica, spirituale e morale. Gesù è isolato, schernito, deriso. La sofferenza di Cristo non è paragonabile a qualsiasi altra sofferenza umana. È la sofferenza del Verbo incarnato. La passione di Cristo, unica e irripetibile, raccoglie le sofferenze di tutta l’umanità passata, presente e futura. Nessuna altra può avere questa dimensione universale. E ogni dolore umano è anticipato nella passione di Gesù. 

È straordinario che il racconto dei vangeli è anticipato dal profeta Isaia, circa 500 anni prima che accadessero i fatti. Si tratta di una stupenda profezia, un’anticipazione, proposta non in maniera sommaria, ma minuziosa e precisa. Bisogna tenere insieme le prospettive: il racconto evangelico e l’antica profezia. In questa unità tra storia e profezia è fissata la grandezza della passione di Gesù. 

Il cap. 13 è l’inizio della svolta narrativa del Vangelo di Giovanni. I capitoli precedenti fanno parte del cosiddetto Vangelo dei segni e preparano “il Vangelo dell’ora (cap. 13-21). L’ora di Gesù è un’espressione tipica dell’evangelista Giovanni per indicare il momento della glorificazione, del passaggio di Gesù dalla terra al cielo e della manifestazione piena della gloria di Dio che tutti attendevano (cfr. Gv 2,4; 7,30; 8,20 17,5). Il Figlio, che è sempre rivolto verso il Padre (cfr. Gv 1,18), dopo avere reso testimonianza all’amore del Padre per il mondo (cfr. Gv 5,31-39; 8,12-20), ora ritorna a lui. È venuto nel mondo ed è giunto alla sua ora per unire definitivamente la creatura al Creatore in una comunione vitale eterna. 

È l’ora della sua Pasqua. In altre ricorrenze, Giovanni specifica che si tratta della festa è dei Giudei (Gv2,13; 5,1; 6,4; 7,2; 11,55; 19,42). Qui invece dice solo che è la Pasqua. Il senso è che l’ora di Gesù coincide con la sua Pasqua, con il suo passaggio da questo mondo al Padre. Vi è anche un altro elemento da non trascurare. In questo brano, l’evangelista, per la prima volta, si premura di descrivere lo svestirsi e il rivestirsi del grembiule. Gesù toglie l’abito della quotidianità per indossare un preciso indumento di servizio. La croce sarà l’estremo svestimento del Figlio di Dio, ma anche la manifestazione dell’amore più alto. Su di essa, infatti, privo di ogni gloria terrena, Cristo veste l’uomo di quella gloria divina che aveva perduto peccando e allontanandosi da Dio.

È l’ora zero della storia, l’ora in cui comincia il Giorno nuovo, il tempo nuovo della salvezza e della grazia. Tutto il dolore della passione sembra ora acquietarsi, come la terra che, dopo aver accolto il seme nel solco, attende nella pace che esso germogli. È l’ora del «grande silenzio». L’ora in cui, come discepoli di Cristo, non c’è più nulla da fare, nulla dire, ma solo «rimanere nel suo amore», rimanere in preghiera presso di lui, inchiodati alla croce insieme con Maria, la Madre. Formare una grande famiglia riunita in un’unica grande supplica che, passando attraverso il cuore trafitto del Cristo, si versa nel seno del «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2Cor 1,3). 

Il racconto della passione di Gesù secondo il vangelo di Giovani inizia con l’espressione «li amò fino alla fine» («eis télos egápesen autoús», Gv 13, 1) e termina con la frase: «Tutto è compiuto» («tetélestai», Gv 19,28. 30). La radice di télos deriva dal verbo teléo che, nel linguaggio comune, voleva dire “portare a termine”, “porre fine”, “raggiungere l’esito positivo di una particolare azione”.  

Ai tempi di Gesù, la parola era usata in ambito commerciale e giudiziario. Dopo aver pagato un debito, sulla pergamena che attestava l’avvenuto pagamento del debito, veniva scritta la parola tetélestai. Gli archeologi hanno rinvenuto dei papiri sui quali la parola è scritta trasversalmente. Era una sorta di quietanza rilasciata dietro il versamento di un qualche tributo. Dopo aver estinto il suo debito con la giustizia, un criminale veniva liberato e sul documento d’accusa si scriveva la parola tetélestai e fintanto esisteva quel documento, egli non poteva più essere accusato di alcun reato (cfr. Col 2,14). 

A volte, la parola tetélestai veniva scritta su un cartello inchiodato sulla porta della casa, in maniera tale che i concittadini sapessero che aveva espiato interamente i suoi crimini ed era quindi un uomo libero. Era l’attestazione del servo al suo padrone, quando aveva finito il lavoro affidatogli o il termine usato dal sacerdote quando stabiliva la perfezione cerimoniale, dopo aver esaminato l’agnello sacrificale. Nel nostro linguaggio si potrebbe tradure “ci sono riuscito”, “ho fatto esattamente quello che avevo deciso di fare”. Uno studente utilizzerebbe questo termine per precisare di aver conseguito una laurea oppure per indicare che un atleta ha attraversato la linea del traguardo alla fine di una gara podistica. 

Vi è un’altra precisazione da fare. Nel greco neotestamentario, tetélestai è al tempo perfetto che si usa per esprimere un’azione che è stata completata in passato con risultati che continuano a manifestarsi nel presente e nel futuro. Gridando che “tutto è compiuto”, è come se Gesù dicesse: «Nulla è rimasto in sospeso. Tutto è avvenuto secondo le profezie, e il disegno del Padre. Ho eseguito con successo il compito affidatomi. Il suo compimento riguarda il passato, il presente e il futuro». 

 È, dunque, il finale grido di vittoria del Salvatore. Con quel grido lanciato in quell’ora, il tempo si è fermato e tutto ricomincia. È un grido di trionfo, perché il Figlio ha portato a termine la sua missione. Ora può consegnare il suo Spirito perché continui la missione lungo il corso dei secoli.  Tutto sta per finire e, nello stesso tempo, tutto sta per iniziare. «Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato. Ed ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo»[1].

Telos e tetelesthai hanno un significato temporale e finalistico, indicano la fine e il fine, il compimento, la totalità e la pienezza. Rappresentano il dono ultimo, la definitiva consegna d’amore di Cristo. La sua passione e morte brillano come una “luce oscura” che riflette, come uno specchio, la storia del mondo, dall’inizio alla fine. Per questo nella Veglia pasquale facendo la croce sul cero diciamo “alfa e omega”, “inizio e fine”. 

Ogni vita umana è sempre una storia incompiuta. Gesù, invece, compie tutto, in una maniera piena e totale. La sua passione è un fatto passato, presente e futuro. L’avvenimento si è realizzato nel tempo, ma il suo valore salvifico continua fino alla fine del tempo. Adorare la croce, vuol dire contemplare “lo spettacolo” (Lc 23, 48) che si realizza nel grande teatro della storia della salvezza. Il Vangelo utilizza la parola “theoria” per indicare la manifestazione di Dio nella storia. Dio pende dalla croce e ogni uomo che soffre e muore partecipa alla croce di Gesù. Ogni sofferenza è un frammento del dolore di Cristo. Siamo morti tutti nella morte di Gesù. 

Ecco perché l’Evangelista dice «stavano presso la croce di Gesù». Maria, Giovanni e le donne rappresentano la Chiesa e l’intera umanità credente e non credente. Tutti assistono allo spettacolo che Dio pone davanti al mondo. La croce è uno spettacolo pubblico a cui si assiste senza pagare il prezzo. Il prezzo è pagato da colui che allestisce la scena. Dio si mostra nella sua nudità, spogliato del mantello e della tunica. Il mistero finalmente si mostra e si vede. La croce mostra la persona divina in modo oscuro e inequivocabile. Non costringe nessuno a credere, ma propone il grande interrogativo: chi è colui che muore? Domanda ineludibile anche oggi, in un tempo in cui si nega l’evidenza della presenza di Dio. 

Le due espressioni «lì amò sino alla fine» e «tutto è compiuto» indicano la contemporaneità del sacrificio di Cristo. La sua morte è sempre con noi. Non è la fine, ma il nuovo inizio. Finisce il primo mondo, incomincia un altro: il mondo di Cristo e di quelli che lo seguono e vogliono far parte della nuova creazione. Da 2000 anni, il nuovo mondo sta cominciando. Dobbiamo prendere la croce e portarla anche noi se vogliamo contribuire a costruire il nuovo mondo «Il dolore – afferma Paul Claudel – è come una mandorla amara che si getta sul ciglio della strada; ripassando per la medesima via, vi troviamo un mandorlo in fiore». 

Questa suggestiva immagine aiuta a comprendere in sintesi il mistero di Cristo: il suo Venerdì Santo è strettamente unito alla sua Pasqua di risurrezione. La sua agonia è come una notte che sfocia nell’alba del nuovo giorno. L’amore è più forte di ogni male e, alla fine, vince.


[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2606.