
La vicenda dell’odierna cattedrale di Ugento
Narrazione storica di Salvatore Palese
La cattedrale fu la più grande costruzione della piccola città di Ugento della prima metà del Settecento.
Nel 1705 si contavano 1400 abitanti, che nel 1761 ascesero a 1600 suddivisi in 193 famiglie (fuochi), di cui 900 di comunione, 400 di confessione e 300 incapaci dell’una e dell’altra. Il Capitolo della cattedrale comprendeva 15 canonici con 3 dignità. Nella città vi erano il convento dei francescani e il monastero delle benedettine. La diocesi comprendeva 15 località.
Chiesa dei vescovi e dei canonici, la cattedrale vide il loro impegno e quello delle famiglie autorevoli, e pure il contributo generoso dei fedeli della città e oltre. Non si trattò di costruirla soltanto, ma pure di abbellirla, in seguito, per renderla degna del culto religioso fino ad oggi.
A quattro passi dal castello marchesale ed anche dal monastero delle benedettine, il convento dei frati francescani e nella campagna la grancia dei celestini: tutti insieme costituirono l’acropoli moderna dell’antica città e, ancora oggi, quanto è rimasto, si impone all’ammirazione. Nel reticolo di strade che le collegò, sono le residenze delle famiglie più in vista.
Il centro storico della città, evolutosi nei decenni del secondo Settecento e dell’Ottocento – e oltre – è dominato dal simbolo della cristianità di quei tempi, la ecclesiae mater dei cristiani della diocesi e la ecclesiae maior degli ugentini.
La più grande chiesa del Settecento della città e della diocesi di Ugento
I lavori iniziarono nel giungo 1718, finanziati dai lasciti del vescovo Antonio Carafa (1673-1704) e del successore Pietro Lazaro y Terrer (1705-1709), poco dopo la morte del vescovo Nicola Spinelli (1713-1718). Si era conclusa la decennale contesa tra vescovi e canonici con la decisione della romana Congregazione dei vescovi e dei regolari: la cattedrale antica non andava riparata; bisognava costruirne una nuova. Mons. Antonio Carafa ne era convinto fin dal 1693. Maestri costruttori furono i De Giovanni originari di Martano.
La nuova cattedrale fu posizionata dietro la precedente e perciò fu necessario iniziare dalla solida struttura del succorpo, tenendo conto del dislivello del costolone roccioso. Essa era stata progettata a croce latina, con presbiterio e navata incrociata con ampio transetto.
Durante la sede vacante la diocesi fu affidata al vicario capitolare Giuseppe Felice Salzedo, canonico otrantino nominato dall’arcivescovo metropolita di Otranto. I canonici presero l’iniziativa di trovare il denaro necessario per proseguire i lavori e nella riunione del 12 maggio 1720, decisero di tassarsi del quarantesimo dei prodotti dei loro campi o il corrispettivo in danaro, e di pagare ciascuno di loro, un operaio per un mese. Si trattava di dare il “buon esempio agli altri” e di sostenere un’”opera tanto pia”. Del resto, anche l’Università aveva accettato la proposta di una tassazione cittadina. Sottoscrissero la decisione dieci canonici e sette mansionari: Celestino Mazzotta, cantore, prima dignità, Mario Gigli, arcidiacono, Ottavio Zagaria, arciprete, ed altri sette: Donato Antonio Vozza, Cristoforo Carparo, Vincenzo Storelli, Antonio Fiorino, Carlo Rovito sindaco, Antonio Martano, Bernardino de Noto; M. Antonio Gomez, Vincenzo Magagnino, Angelo Barba, Quintino de Antiquis, Ambrogio Rizzo e Pietro Lauriano.
Nella settimana seguente tutti insieme essi parteciparono al sinodo diocesano che il vicario svolse il 20 maggio. Sarebbe stato l’ultimo nell’antica cattedrale.
Quando giunse il nuovo vescovo Andrea Maddalena nominato il 2 marzo 1722, i lavori del succorpo erano compiuti e perciò si cominciò ad abbattere la sacrestia dell’antica cattedrale, per procedere alla elevazione delle mura del presbiterio e della crociera. A finanziare i lavori si aggiunsero le donazioni di Stefano Papadia di Ugento, nel 1723, e dopo, quella di Luigi Piccinno di Ruffano.
Trasferito a Brindisi nel 1724 il vescovo Maddalena, arrivò a succedergli il carmelitano spagnolo Francesco Bataller. Fu questi a trasferire l’attività cultuale nella chiesa dell’Assunta, presso la porta San Nicola. Nell’antica cattedrale infatti lo spazio per i fedeli si era ristretto e per tutti era diventato insopportabile il fetore risalente dalle tombe. Il 15 gennaio 1729 il vescovo diede notizia a Roma – nella relazione per la visita ad Limina – che i lavori erano a buon punto e mancava ancora il tetto. Nel 1736-1737, fu vescovo Giovanni Rossi, che in poco tempo intraprese lavori per la residenza vescovile, senza disattendere ai lavori della cattedrale. Il suo ricordo rimase vivo nella città, com’è testimoniato dall’epigrafe che si legge nel palazzo vescovile. Invece il suo stemma al suo ingresso si è andato consumando.
La costruzione della cattedrale non costò soltanto un fiume di denaro e tanta fatica, ma pure la vita del muratore o “capomastro” Pasquale De Giovanni, il 6 marzo 1737, egli cadde dalla sommità della fabbrica e quasi subito morì, e poi fu sepolto nella chiesa dei frati minori, come annotò l’arciprete Stefano Palese nel registro dei defunti.
I lavori proseguirono nel biennio episcopale di Giovanni Carmignano (1737-1739) e la muratura fu completata con il possente cornicione che la significava nella sua unità. Ma soltanto le due volte della crociera erano coperte; si aggiunse poi il fatto che la residenza vescovile era crollata in buona parte.
Decisivo fu l’impegno del vescovo domenicano Arcangelo Maria Ciccarelli (1739-1747). Egli tolse i lavori ai De Giovanni ai quali addebitò i crolli verificatisi nella residenza vescovile, e affidò il completamento dell’opera al celebre costruttore Tommaso Pasquale Margoleo.
Anche il Capitolo fece la sua parte. Tutti avevano fretta che si concludessero i lavori, anche perché la chiesa dell’Assunta si rilevava sempre più inadeguata. I canonici, ancora una volta, nella riunione del 18 giugno 1740 decisero di rinunciare anche alla quota parte di grano e di orzo dell’intero patrimonio capitolare e di vendere un oliveto ricevuto in donazione di recente. Dal verbale della riunione, si apprende, inoltre, che don Marco Antonio Macrì aveva dato già 40 ducati in aggiunta ai 300 offerti dalla sua famiglia.
I lavori si conclusero il 3 maggio 1743 e l’arciprete don Stefano Palese annotò che il vescovo stesso salì sul terrazzo dove tenne una “elegantissima” omelia e con le sue mani pose l’ultima pietra “la chiave della lamia”, come era detta volgarmente, alla presenza dell’intero Capitolo e del clero – nel 1739 erano 36 – e con grande concorso di popolo. La soddisfazione era generale anche perché il “terribile” terremoto del mercoledì 20 febbraio 1743 aveva risparmiato la costruzione, a differenza dei danni arrecati in vari centri della provincia a nord e a sud di Ugento. Il diligente arciprete don Stefano non ci ha lasciato nessuna nota a riguardo.
Il vescovo aveva fatto erigere con marmi intarsiati l’altare maggiore e la balaustra che egli aveva chiesto, come si è scoperto da recenti studi, nel 1740 ai fratelli Baldassarre e Antonio de Lucca, apprezzati marmorai napoletani, e con legno d’ulivo aveva fatto organizzare il coro retrostante per i canonici tenuti alla preghiera comune ogni giorno. Il cancello in ottone che chiudeva il presbiterio è conservato nel Museo diocesano. Poi donò il battistero e due acquasantiere, con lo stemma dell’ordine domenicano a cui apparteneva, e poi l’ostensorio argenteo per l’esposizione del Sacramento, che si conserva nel museo diocesano insieme con il suo ritratto
Perciò il 30 giugno 1743 il vescovo Ciccarelli consacrò la chiesa in onore di san Vincenzo e nell’altare maggiore pose le reliquie dei santi martiri Giustino, Veneranda e Innocenzo e stabilì che la festa della sua consacrazione doveva essere celebrata ogni anno nella seconda domenica di luglio. Sulla parete del presbiterio, tra le due finestre, fece collocare la grande tela del santo patrono Vincenzo, diacono e martire, che aveva ornato la precedente. Quindi, come annota ancora l’arciprete Palese, il 4 agosto fu trasferito il Sacramento dalla chiesa dell’Assunta. La solenne processione percorse le vie del paese, scendendo nel sobborgo e risalì verso la cattedrale. Essa era il massimo luogo di culto nella città e nella diocesi. Ma la facciata non aveva ancora un fastigio e la cattedrale non aveva un campanile a torre, ma soltanto a vela: e così rimase per un secolo.
Ugento contava poco più di mille abitanti con 36 ecclesiastici come il vescovo li aveva registrati nel 1739; ad essi si aggiungevano i frati francescani.
Fiaccato da tanto impegno, a cui si aggiunse quello del restauro del monastero delle Benedettine, mons. Ciccarelli si ritirò nel convento del suo ordine a Napoli e lasciò suo vicario Benedetto Rovito, al quale affidò la compilazione della relazione ad limina che riferisce tutti questi avvenimenti. Da Napoli, il primo ottobre 1745 fece dono di un reliquiario ex ossibus di san Vincenzo, frenando il Capitolo dal vendere oggetti preziosi lasciati dai vescovi Bataller e Maddalena. E infine commissionò una grande campana e ne fece fondere una seconda; pensò pure a finanziare la costruzione dell’organo.
Fu grande l’amore del Ciccarelli per la sua cattedrale e dice il vero il grande stemma collocato sull’antica facciata, sebbene ad oggi non più visibile. Egli si dimise il 18 novembre 1746 e morì il primo maggio 1747.
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Frattanto, nella campata della crociera e della navata erano stati elevati gli altari votivi, naturalmente di canonici e di famiglie possidenti e aristocratiche. Del 1745 è l’altare del Sacramento del canonico penitenziere Angelo Puzzelli (+1776) e del canonico Antonio Sava (+1771), che alcuni ritengono costruito dal Margoleo riconosciuto anche come ottimo scultore. Del 1746 è l’altare delle Anime Purganti costruito con le offerte dei fedeli raccolte dal canonico don Benedetto Rovito e con il dono della statua di S. Giovanni Battista fatto dall’arciprete don Giovanni Ceuli (+1763) e con quella di S. Giuseppe donata da don Antonio Monaco. Ben presto il capitolo fece erigere l’altare della Madonna del Rosario con la tela cinquecentesca del Catalano, probabilmente già esistente nella cattedrale abbattuta, ed era l’altare dell’omonima confraternita. Del 1747 è l’altare della Desolata o dei Sette Dolori, con quattro statue di santi e di cariatidi, della famiglia, altare attribuito al noto Mario Manieri. Del 1756 è l’altare della Madonna del Carmine della famiglia Gigli. Degli anni seguenti è quello dei SS. Andrea Apostolo e Caterina d’Alessandria, con tela attribuita da alcuni a Giuseppe Ribera- detto “lo spagnoletto” – e da altri a Paolo Fenoglio, della famiglia dei d’Amore, marchesi di Ugento e principi di Ruffano. A ciascuno di questi altari è legata la vicenda religiosa di chierici e di laici devoti di quei tempi e di donatori di piccoli fazzoletti di terra, oliveti o campi da semina. È da auspicare lo sviluppo delle ricerche per stabilire, con precisione, costruttori degli altari e pittori delle loro tele, probabilmente provenienti dalla precedente cattedrale abbattuta. Ciò consentirà la loro lettura iconologica che potrà cogliere la ricchezza dei significati e dei messaggi che donatori e artisti intesero esprimere e trasmettere agli ugentini della metà del Settecento, non privo di fermenti rinnovatori anche nelle lontane province del regno napoletano dei Borbone.
Nella nuova cattedrale fu valorizzata la suppellettile liturgica donata dai vescovi e in questo modo ne fu ravvivata la memoria. Ad esempio, il calice e la pianeta donata da Luca de Franchis (1614-1616), il reliquiario-ostensorio di Agostinho Barbosa (1649), il pastorale di Pietro Lazaro y Terrer (1705-1709), tutti conservati nel museo diocesano. Qui si trova pure l’antico fonte battesimale in pietra leccese, commissionato e donato da Raimondo del Balzo negli anni 1485-1515; un altro battistero seicentesco – o acquasantiera – è stato tristemente sistemato nel giardino del seminario vescovile.
Mons. Tommaso Mazza (1747-1768) vide la cattedrale arricchirsi degli altari della navata e anch’egli fece dono di un secchiello con aspersorio che viene adoperato ancora nelle celebrazioni.
Della condizione della cattedrale nel 1761, di recente è stata pubblicata da Giovanna Occhilupo (2018) la relazione puntuale dell’ispettore Luca Vecchione. Egli da attento ispettore annotò che migliaia di tufi erano provenuti dalla cava di Pompignano e con la pietra dura di Campigliano era stata realizzata la facciata ornata con lesene e capitelli di ordine dorico. C’è da immaginare la teoria di carri che per vent’anni avevano trasportato tanto materiale.
Nella cattedrale riedificata non trovarono posto, purtroppo, i segni di quei vescovi che dopo il 1537 ressero la piccola diocesi e conclusero il loro ministero e furono sepolti nella loro chiesa, la cattedrale: il francescano Bonaventura da San Leone (+1558), Pietro Guerriero (+9 ottobre 1610), il mercedario spagnolo Ludovico Ximenez (+1636), Girolamo Marini (+1648), il portoghese Agostinho Barbosa (+19 novembre 1649), il teatino napoletano Antonio Carafa (+24 aprile 1704), il francescano spagnolo Pietro Lazaro y Terrer (+27 marzo 1709), il carmelitano spagnolo Francesco Bataller (+1 dicembre 1735). Le loro tombe forse andarono disperse nel ventennio della costruzione. Ma di alcuni sono rimasti i libri che portarono con sé e ora sono nella biblioteca diocesana e testimoniano la loro cultura che meriterebbe di essere riscoperta.
Nel 1768 venne a fare il vescovo il leccese Giandonato Durante (1768-1781), il quale pose sulla controfacciata, sotto il finestrone e sopra l’ingresso, la grande epigrafe che riepilogava la vicenda della costruzione e menzionava i predecessori che avevano voluto l’edificazione e si erano generosamente impegnati. Su di essa domina evidente lo stemma grandioso del vescovo Carafa e, a sigla conclusiva, il vescovo Durante pose anche il suo. Alla cattedrale egli donò un bel parato che si conserva nel museo diocesano, dopo un recente restauro. E alla sua memoria a sinistra dell’ingresso, la sorella Margherita e il nipote Saverio Guidotti eressero un monumento ornato della sua immagine.
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Dei canonici che numerosi affollano la vicenda della costruzione della cattedrale ugentina e del suo abbellimento con donativi di vario genere, meritano attenzione don Carlo e Benedetto Rovito e don Stefano Palese.
Il primo lo troviamo “sindaco del Capitolo” nelle “battaglie giuridiche” per assicurare le donazioni fatte per la costruenda cattedrale e nella prima fase della su costruzione. Don Benedetto fu eletto vicario capitolare il 18 ottobre 1726, alla partenza del vescovo Maddalena, lo troviamo accanto al successore Ciccarelli negli anni 1745-1746, che come già detto gli affidò di redigere la relazione per la visita ad limina riguardante proprio la costruzione della cattedrale; promotore dell’altare delle Anime del Purgatorio (1746) e di quello del Rosario, voluto dallo stesso Capitolo, si trova pure come amministratore del Capitolo di quegli anni, come in quelli del vescovo Mazza.
Don Stefano Palese, da arciprete della cattedrale, ci ha lasciato delle preziose annotazioni nei libri sacramentali, riguardanti le varie fasi della costruzione con uno stile che ci lascia intravedere la sua personalità di prete dedito al suo ministero; perciò il vescovo Mazza quando riuscì ad istituire il seminario diocesano nel 1752, gli affidò la formazione dei chierici aspiranti al sacerdozio. Va ricordato infine il canonico Puzzelli che donò per l’altare del sacramento la statua di S. Giovanni Nepomuceno di cui introdusse la devozione, e poi negli anni seguenti curò la ricostruzione della chiesa del Capitolo, intitolata ai SS. Medici.
Su di loro altre notizie dettagliate sono nella visita pastorale che l’arcivescovo Ciccarelli svolse nel 1739.
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Non si conoscono gli sviluppi che si verificarono all’interno della cattedrale. Essa aveva qualcosa di incompiuto: senza campanile e senza facciata degna.
Il vescovo Monticelli (1783-1791) la dotò di un pulpito necessario e lo collegò con l’organo che gli era accanto. Egli risiedette spesso a Presicce e vi morì il 16 gennaio 1791 e lì rimase la sua sepoltura nella chiesa che aveva visto completarsi.
Gli anni di fine Settecento furono turbolenti e i vescovi lasciarono il titolo di baroni di Gemini e Pompignano; mons. Giuseppe Panzini (1792-1811) si vide arrivare la rivoluzione e nel 1798 dovette far partire dalla cattedrale due casse contenenti gli argenti appartenenti alla mensa vescovile; per la volontà del Re si doveva soccorrere i terremotati della Calabria. Rimase però la statua lignea di San Vincenzo, segno di gratitudine per la recuperata salute – come scritto – che ancor si venera nel giorno festivo di gennaio ed anche un parato che si conserva nel museo diocesano. Ma poi egli dovette lasciare la sede perché i “francesi” di re Giuseppe avevano bisogno di stabili per le truppe che invasero il Regno di Napoli sino a Leuca.
La cattedrale e la diocesi rimasero senza vescovo e i canonici con i vicari capitolari dovettero portare avanti l’intera compagine ugentina e diocesana, per oltre un decennio. Non si sa quanto si fece vedere il vescovo di Gallipoli Danisi quando re Gioacchino Murat lo nominò vicario capitolare.
In questo contesto nel 1812 la municipalità ugentina fece erigere un altare in onore di san Vito presso l’ingresso, perché proteggesse la popolazione dalle epidemie.
La cattedrale dell’odierna diocesi nelle grandi trasformazioni dell’Italia e della Chiesa
La normalità ritornò nel 1818, e fu straordinaria la ripresa perché alla diocesi di Ugento fu annessa la soppressa diocesi di Alessano. Il vescovo Camillo Alleva arrivò alla fine dell’anno e si dimostrò dinamico e determinato per la riapertura del seminario. Per la cattedrale rimangono i segni della sua attenzione, in particolare nei confessionali che fece sistemare nella crociera; donò anche un calice d’argento, la brocca con il bacile e poi un completo parato, conservati ora nel museo. Con quel vescovo doveva realizzarsi la restaurazione dopo lo scompiglio di un ventennio. Ma egli ben presto fu trasferito altrove.
Il successore negli anni 1828-1836 fu il cappuccino Arcangelo De Mestria. Egli, dopo aver completato la ex cattedrale di Alessano, eresse nella crociera l’altare del protettore san Vincenzo al fine di promuoverne la devozione insieme con quella al Sacro Cuore di Gesù, nel 1832; poi dispose che di fronte ad esso fosse sepolto, come avvenne il 30 dicembre 1836, nel mausoleo con il medaglione che lo raffigura. Un altro segno della sua devozione a san Vincenzo rimane nella teca argentea in cui collocò un frammento osseo del santo e ornò il mezzobusto donato dal predecessore Panzini. Donò infine la sua mitra episcopale, una pisside e un ostensorio eucaristico, conservati nel museo.
Nel 1837 venne a fare il vescovo il vincenziano Francesco Bruni, giovane ancora di 35 anni, nonché zelante e determinato visitatore della diocesi. Recuperate le rendite della mensa vescovile, nel 1843 fece costruire il campanile progettato dall’architetto alessanese Benedetto Torsello e realizzato dai maestri muratori Emanuele e Vito Torsello anch’essi di Alessano. La torre fu sistemata all’incrocio del presbiterio con il transetto e ciò comportò la chiusura di due finestroni dall’interno. Successivamente nel 1846 concesse al principe di Ruffano e marchese di Ugento, Vito Antonio d’Amore, di abbellire e ingrandire il monumento funebre che Domenico d’Amore aveva fatto per esaltare le virtù della amatissima consorte, la napoletana Serafina Capasso, morta appena venticinquenne il 25 febbraio 1783, meritevole di ricordo per le sue virtù di donna pia e benefica. Il tondo che la raffigurava poi fu trafugato.
Seguirono anni di accese questioni politiche per la unificazione nazionale e il vescovo di Ugento si distinse nei dibattiti e nelle contrapposizioni. Nella cattedrale ugentina risuonarono le sue omelie Contro gli eccessi del liberalismo tenute nell’avvento del 1848; omelie che vennero edite l’anno seguente e poi egli corse a Napoli per rendere omaggio a papa Pio IX esule dalla Roma repubblicana come ne ha scritto il suo segretario don Vito Ciardo negli appunti inediti. Anche i canonici della cattedrale si divisero: contro le libertà liberali e furono considerati zelanti per la conservazione del trono del legittimo sovrano, osteggiati dai “patrioti locali” e controllati dalla polizia regia. Bruni era legato dal giuramento fatto al re Ferdinando e la polizia sabauda lo segnalò e lo fece processare.
Possiamo immaginare l’entusiasmo con il quale il vescovo Bruni nella cattedrale ugentina predicò del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria proclamato l’8 dicembre 1854, alla quale egli partecipò di persona a Roma.
Nel 1855 fece abbellire la facciata della cattedrale con un pronao neoclassico a quattro colonne di stile neoclassico, progettato dall’ingegnere Masia e realizzato dai costruttori Policarpo e Michele Rizzo di Casarano e concluso dal muratore Giusto de Pandis di Lecce.
Copiosa fu la suppellettile liturgica che egli donò, conservata oggi nel museo diocesano, come pure la reliquia della Santa Croce inserita nell’ostensorio del predecessore Barbosa. Nel 1858 fece rifondere la campana grande – quella di mons. Mazza – e un’altra ancora che egli benedisse nell’ottobre 1859.
Nell’estate 1858, nei giorni 19-21 agosto, nella cattedrale egli tenne il sinodo diocesano, il primo della nuova diocesi cui parteciparono anche gli ecclesiastici della soppressa diocesi alessanese; le disposizioni egli le fece stampare e diffondere. La celebrazione del sinodo forse fu il momento più alto del suo episcopato. Infine, accanto alla cattedrale, egli avviò la costruzione del seminario diocesano. Quando l’unificazione nazionale divenne realtà e la sua contrarietà gli procurò incidenti giudiziari, egli lasciò la diocesi in piena rivoluzione e morì ben presto il 16 gennaio 1863 nella nativa Bisceglie dove si era ritirato.
La cattedrale e i canonici furono privati dei loro beni, come tutti gli enti ecclesiastici, e in questa condizione la diocesi fu diretta dal vicario capitolare Andrea Gigli per un decennio.
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Un segno della nuova fase storica fu l’istituzione del cimitero comunale nel 1881. Si concluse così il ruolo storico della cattedrale che per secoli aveva raccolto le salme dei suoi “figli” di ogni condizione nel suo sottostante spazio, quasi a custodirli per la resurrezione finale. Lì, cento anni dopo, è stato organizzato il museo diocesano nel 2005.
Le attenzioni del successore mons. Zola (1873-1877) si rivolsero al santuario di Leuca bisognoso di urgenti interventi di ogni genere, come quelli del vescovo Gennaro Maria Maselli (1877-1890) e del successore Vincenzo Brancia (1890-1896). Il museo diocesano conserva la pianeta dei tre vescovi e il reliquiario donato da Maselli. Questi fece redigere nel 1882 una completa descrizione della cattedrale dal canonico Luigi Legittimo e fece porre, nella campata del battistero l’epigrafe che ricorda mons. Barbosa.
Negli anni dell’episcopato di mons. Luigi Pugliese (1896-1923), dinamico e innovatore, aperto ai problemi sociali del mondo contadino del Salento estremo, a cavallo dei due secoli e della prima guerra mondiale; nella cattedrale fu compiuta l’illuminazione elettrica segno della modernità. Ma già nel 1898 il vescovo promosse l’impegno dei canonici per elevare un baldacchino marmoreo per il Sacramento e ai primi del secolo li aveva incoraggiati ad ornare con marmi pregiati l’altare della Madonna del Rosario come lui aveva provveduto a sostituire l’antico pavimento con il nuovo in marmo nel 1902.
Anni di guerra furono quelli di questo episcopato con la conquista della Libia e soprattutto della prima guerra mondiale: nella cattedrale si celebravano le esequie di tanti caduti per terra e per mare e i suffragi per loro, e la preghiera per la pace accumunarono clero e fedeli. Il vescovo fu vicino ai familiari dei caduti e ai prigionieri dispersi nei paesi europei, come illustrato in una recente ricerca di Ercole Morciano.
Nulla possiamo dire del decennio di mons. Antonio Lippolis (1923-1932) se non quello di aver dato norme scritte – forse le prime – ai canonici del Capitolo e di riempire la cattedrale della gioventù dell’Azione Cattolica che egli promosse ad Ugento e nelle parrocchie della diocesi. Nel sacro tempio egli portò la testimonianza della sua sofferenza che rimase un ricordo devoto nel clero e nei fedeli. Quando giunse la notizia della sua morte ad Alberobello (22 dicembre 1942), la cattedrale si riempì il 2 gennaio 1943 e il successore Giuseppe Ruotolo ne face un grande elogio e successivamente nel mese di maggio la gioventù di Azione Cattolica volle dire la sua gratitudine nella lapide esposta nel palazzo vescovile.
In quegli anni furono firmati i Patti lateranensi e i canonici furono invitati a recitare la preghiera pro rege et Regno italico. La condizione giuridica del Capitolo era stata riconosciuta nell’ordinamento statale.
Ma pure tra i canonici non mancarono posizioni di “resistenza” o, meglio, di freddezza nei confronti del regime fascista. Era inevitabile soprattutto nei preti che da giovani erano cresciuti negli anni del vescovo Pugliese e avevano sentito l’entusiasmo per il partito popolare di Luigi Sturzo. Per alcuni sorsero problemi anche a causa della difesa dell’Azione Cattolica, ma furono protetti dal vescovo Teodorico De Angelis nella sua breve permanenza ad Ugento (1834-1836).
Gli sviluppi prima e dopo il Vaticano II: riscoperta della memoria per l’identità di una Chiesa
Non sappiamo quali furono i sentimenti provati da mons. Giuseppe Ruotolo appena quarantenne, all’ingresso nella sua cattedrale nel marzo 1938, ma possiamo intuirli se si considerano i lavori intrapresi subito, nei primi anni del suo episcopato.
Egli diede una impostazione strutturale, quella odierna. Innanzitutto arretrò l’altare maggiore al fine di collocare nel presbiterio, davvero angusto, la cattedra episcopale – il trono – con strutture lignee stabili, eliminando il panneggio precedente. Nel 1940 la sacrestia fu trasformata a divenire la cappella del Sacramento, l’attuale. Nel 1941 essa fu arricchita della decorazione compiuta dal romano Angelo Baroni su disegno del prof. Corrado Mezzana e sull’altare fu collocata la tela di Cristo Re, dipinta da Tito Ridolfi, a cura della famiglia Colosso. Nel luglio 1944 fu eseguita l’artistica e grande tela dei patroni della diocesi, e collocata sul coro dei canonici. Erano raffigurati al centro Maria Assunta in cielo, onorata da santa Lucia e i santi Medici, e poi dai santi Vincenzo, Rocco e Antonio. La nuova sacrestia fu costruita ex novo dall’altra parte della cattedrale e fu necessario provvedere ad una struttura di supporto, per essere a livello della cattedrale; infine venne aggiunta una scala che la collegava direttamente con la residenza vescovile e pertanto venne chiusa definitivamente la così detta “camera buia”, posizionata di fronte all’organo e al pulpito.
Si era negli anni della seconda guerra mondiale. Nella cattedrale si celebravano esequie e suffragi per le tante vittime e si pregava per la pace e per il futuro dell’Italia. Dopo il referendum istituzionale del 1946 i canonici iniziarono a concludere la celebrazione della messa conventuale con la preghiera per la Repubblica italiana e il suo presidente, come avevano fatto per il re dopo il 1929.
Il 15 giugno 1947, all’inizio del secondo Congresso eucaristico diocesano (15-22 giugno), furono trasferiti dal cimitero comunale i resti mortali dei vescovi Brancia e Pugliese e collocati di fronte alla cappella del Sacramento. Successivamente le loro lastre furono sistemate al suo interno, al tempo dell’arciprete Domenico De Giorgi negli anni ’70, per lasciare lo spazio ad un nuovo organo elettrico.
Nella cattedrale, a conclusione della prima visita pastorale, mons. Ruotolo celebrò solennemente il sinodo diocesano nei giorni 11-13 maggio 1942, a circa cento anni da quello di mons. Bruni. Nelle costituzioni che vennero pubblicate, si affermava la centralità autorevole del vescovo sulla compagine delle istituzioni ecclesiastiche e la guida della vita cristiana dei fedeli. E un secondo sinodo, mons. Ruotolo lo pubblicò nel maggio 1952 con l’aggiunta di alcune norme, a quelle di dieci anni prima, considerando il mutato contesto storico con le trasformazioni economiche e sociali che si delineavano anche nel Salento estremo tra contrapposizioni ideologiche e scontri politici, anche ad Ugento e nei paesi della diocesi. La cattedrale era dentro il politicizzarsi della religione e raccolse fedeli trepidanti e supplici durante la “crociata” del 1948; ad Ugento come ovunque in Italia. Mons. Ruotolo aveva ottenuto di collocare la statua marmorea di san Vincenzo, il 22 gennaio 1948, nella piazza antistante la cattedrale con l’auspicio di pace e di progresso per l’Italia, diventata una Repubblica democratica.
Il prestigio della cattedrale non fu intaccato quando il 15 agosto 1959 la Santa Sede arricchì il titolo della diocesi Ugento-S. Maria di Leuca. Si comprese così che l’anima religiosa della popolazione salentina si alimentava della devozione mariana con un processo in crescendo negli anni del dopoguerra e sostenendo le opere caritative che il vescovo Ruotolo andava realizzando presso il santuario.
Nella cattedrale mons. Ruotolo fece riecheggiare l’annuncio del concilio Vaticano II e il lavoro che poi si andò facendo nella grande assise (1962-1965). Ad esso egli partecipò con impegno dal primo all’ultimo giorno, contribuendo alla riflessione dottrinale e al programma di rinnovamento del mondo cattolico. Ed egli ne parlava nelle lettere pastorali e poi nelle celebrazioni solenni da lui presiedute si introdusse la lingua italiana, come poi si diffuse nelle chiese della diocesi. Avvenimenti storici di grande rilievo per lo sviluppo del mondo cattolico.
Una svolta storica del ruolo della cattedrale avvenne nel 1967 quando mons. Ruotolo istituì la parrocchia del Sacro Cuore di Gesù nel rione di ponente. La cattedrale finì di essere la chiesa madre di Ugento, dove i cittadini, per secoli, erano stati battezzati e cresimati, e quindi sposati e infine suffragati; quasi tutte le famiglie erano state benedette e consacrate nella loro origine. Ma la maternità della cattedrale si espresse nell’atto di dare parte della sua dote patrimoniale per la nuova comunità e poi si verificò altrettanto nel 1972 quando mons. Riezzo, amministratore apostolico, istituì la parrocchia di san Giovanni Bosco nel rione di scirocco, come era avvenuto per l’oratorio sul terreno preso dalla dote terriera del beneficio della parrocchia cattedrale. Si sa, infine, che in modo analogo avvenne nel 1986 quando sorse la parrocchia di S. Maria dell’Aiuto in Torre S. Giovanni. Vale ricordare che questo processo era indicato alla meta del Seicento quando mons. Agostino Barbosa, nel 1649, creò con rapida decisione la parrocchia di Gemini. Come si vede, l’organizzazione policentrica della vita religiosa si evolveva nella diversità della organizzazione della cura pastorale. E per il clero della cattedrale di cui faceva parte l’arciprete-parroco, terza dignità del Capitolo, cominciava l’inizio della fine.
Quando l’11 novembre 1967 mons. Ruotolo decise di lasciare definitivamente la diocesi per il monastero delle Tre Fontane di Roma, il suo cuore non si allontanò affatto e nella cattedrale rimase il suo pastorale d’argento ricevuto in dono nel 1948 e che i successori continuarono ad usare; e vi rimase anche il “trono” nel presbiterio. Si sa che mons. Ruotolo morì l’11 giugno 1970 da semplice postulante della vita monastica e fu sepolto nel cimitero di Andria, ma poi, come era sua volontà, ritornò nella terra della sua diocesi che aveva amato e servito. Il 28 marzo 1971 egli fu sepolto definitivamente nel santuario di Leuca che aveva nel cuore. Solenne fu la concelebrazione che si tenne nella cattedrale ugentina per la quale egli aveva tanto provveduto nei primi anni del suo episcopato: il popolo cristiano, commosso, gli espresse umana comprensione, ammirazione e gratitudine, certo che la sua intercessione sarebbe durata per sempre.
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Durante la vacanza della sede episcopale, apertasi con le dimissioni di mons. Ruotolo, la diocesi fu retta dall’amministratore apostolico mons. Nicola Riezzo con cura pastorale e con zelo apostolico, e la cattedrale fu presa in mano dai parroci che si susseguirono nei decenni seguenti. Il Capitolo andava soffrendo le trasformazioni del post-concilio che lo emarginava dal ruolo che aveva avuto nei secoli passati e la parrocchia si insediò decisamente nella cattedrale, considerato pure il sorgere di altre parrocchie nella Ugento in espansione. La cattedrale rimase la chiesa del vescovo e il centro religioso della diocesi.
Nell’autunno 1974 finalmente arrivò il vescovo che si temeva non venisse più, tanto si era discusso negli anni del riordinamento della geografia delle diocesi in Italia. Il 10 novembre 1974 entrò nella cattedrale il nuovo vescovo di Ugento-S.M. di Leuca mons. Michele Mincuzzi proveniente dall’arcidiocesi barese. La folla diocesana lo accolse calorosamente, augurandogli il miglior lavoro pastorale e auspicando il risveglio del rinnovamento conciliare. Ben presto egli si dimostrò guida illuminante e coraggiosa. Il suo dinamismo coinvolse l’adeguamento dell’area presbiteriale della cattedrale e la progettazione affidata all’architetto Luigi D’Elia di Lecce fu studiata attentamente dalla commissione diocesana di arte sacra da me presieduta, grazie alla collaborazione offerta dai dirigenti della Soprintendenza dei Beni Culturali di Puglia e Basilicata. Mons. Mincuzzi approvò e autorizzò la realizzazione dei lavori al marmista Buffelli di Alessano.
L’intervento mirava all’adeguamento delle strutture esistenti alle esigenze e alle modalità indicate dalle riforme liturgiche post-conciliari. Due erano gli obiettivi da conseguire. Evidenziare l’unità del popolo di Dio nella celebrazione eucaristica e favorire la “fruttuosa partecipazione” del clero e dei fedeli alla celebrazione liturgica. Concretamente, venne eliminato il “trono” episcopale per ottenere più spazio nell’area presbiterale; la sede del vescovo fu collocata di fronte all’assemblea, sulla predella dell’altare maggiore settecentesco di cui fu eliminata la mensa e salvaguardato il paliotto; infine fu aperta la balaustra con un taglio delle parti centrali, valorizzate nel nuovo altare a sostegno di una grande mensa e nei due amboni, uno per la proclamazione della Parola e l’altro per chi doveva curare il raccordo dei fedeli con il vescovo presidente dell’intera assemblea ecclesiale. Insomma, si voleva fare della cattedrale il nuovo tempio del popolo di Dio, celebrante con il successore degli apostoli il mistero della redenzione dell’umanità che Gesù risorto e vivente continua ad operare con l’effusione dello Spirito a gloria del Padre divino. Anche la grandiosa tela raffigurante Maria glorificata e circondata dai santi patroni della città e della diocesi, fu coinvolta nella riorganizzazione dell’area presbiterale, assumendo evidenti significati più alti di quelli devozionali: la comunione della Chiesa celeste con la Chiesa terrestre a rassicurare i cristiani pellegrinanti nel tempo della intercessione dei fratelli giunti al Regno di Dio.
Per la circostanza fu data la pulitura al pavimento marmoreo donato dal vescovo Pugliese agli inizi del Novecento. Fu inaugurata il 4 aprile 1986. Il risultato fu apprezzato da molti e il parroco don Domenico De Giorgi ne fece fissare la memoria con una lastra marmorea, modesta e quasi nascosta. L’adeguamento dell’area presbiteriale diede una nuova visione spaziale della cattedrale e divenne di riferimento negli interventi che seguirono nelle chiese della diocesi.
La chiesa del vescovo gestita dagli arcipreti parroci
Nel corso degli anni ’70-’80, la cura della cattedrale passò di fatto ai parroci-arcipreti: don Domenico De Giorgi dal 1973, don Giuseppe Martella dal 1982, don Pietro Carluccio dal 2000, don Rocco Zocco dal 2011 e don Rocco Frisullo dal 2014. Il Capitolo infatti si era avviato al declino finale a seguito della pubblicazione del Codice di diritto canonico (1983) che ridimenzionò il suo ruolo storico. Le nuove costituzioni firmate da mons. Mario Miglietta (25 dicembre 1989) lo configurarono come segno della ecclesia orans nella solenne celebrazione episcopale. Infatti, i canonici si riunirono fino al 7 luglio 1993, data della loro ultima riunione.
I parroci arcipreti hanno avuto il merito di suscitare la collaborazione generosa dei fedeli ugentini. Il loro rapporto con il vescovo divenne diretto e quotidiano e originò un dialogo fecondo di progetti e di realizzazioni; progetti favoriti dallo sviluppo dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia (Concordato del 18 febbraio 1984) nel quale i beni culturali ecclesiastici furono dichiarati appartenenti al patrimonio nazionale e pertanto lo Stato si faceva carico di contribuire alla loro conservazione e alla loro valorizzazione, come venne precisato negli anni seguenti, nelle intese tra il Ministero dei Beni Culturali e la Conferenza episcopale italiana. Del resto, nella legislazione delle regioni venivano dichiarati chiese, archivi e biblioteche come beni di interesse storico e pertanto i governi regionali e provinciali, e talvolta gli stessi comuni, prevedevano il finanziamento di iniziative specifiche. Si era aperta insomma una nuova stagione e in questo contesto non poche furono le iniziative dei parroci per la cattedrale, mentre le attenzioni dei vescovi si rivolsero alle chiese delle parrocchie della diocesi.
Negli anni del parrocato di don Domenico De Giorgi, nella cattedrale, fu collocata una modesta Via crucis e avvenne – non per colpa sua – la perdita della grande tela di San Vincenzo del Ribera, che giaceva da un ventennio nell’episcopio, quasi ignorata. Si continuò a catalogare le opere mobili delle chiese parrocchiali, con il sostegno di mons. Mincuzzi e poi dei successori Miglietta e Caliandro.
Negli anni del parrocato di don Giuseppe Martella fu compiuta la bonifica del succorpo. Era diventato luogo di ricerca di oggetti preziosi, non avendo una chiusura sicura. Lo scenario che si presentò suscitò repulsa negli operatori addetti ai lavori diretti dai tecnici del genio civile di Lecce. Furono trovati altri operai e con lunga fatica i resti umani furono portati nell’ossario del cimitero di Ugento. I locali furono restaurati in modo che potessero adibirsi alle attività pastorali della parrocchia. L’impegno economico fu rilevante. Negli anni successivi dell’episcopato di mons. Caliandro e mons. De Grisantis, il succorpo della cattedrale fu destinato a diventare sede del museo diocesano. Nel 1999 fu realizzato il consolidamento del campanile. All’interno si effettuò la tinteggiatura generale; con le offerte del parroco, di alcune famiglie generose e della Banca Popolare Pugliese furono ripulite le tele degli altari. Infine, fu realizzata nella cosiddetta “camera buia” una cripta per la celebrazione settimanale nei mesi invernali.
Agli inizi del nuovo millennio, don Pietro Carluccio, ottenne in dono dalla famiglia Mazzeo un bellissimo lampadario di cristallo e dal 2005 il vescovo De Grisantis fece restaurare molta suppellettile antica destinata di fatto al museo diocesano che prendeva corpo. Nel 2008 furono restaurati gli altari della crociera e ritornarono a splendere nella loro ricca organizzazione e nella vivacità dei colori originali. Meno apprezzato fu il ripristino della cattedra episcopale con un “trono” di forme medievali, posizionato su un lato del presbiterio, e la riduzione degli amboni ad uno soltanto, che ridimensionò l’area presbiteriale modificando gli equilibri spaziali della sistemazione del 1976. Nel 2010 venne riempita la campata rimasta vuota della grande tela del Ribera con quella dipinta da don Gianluigi Marzo, prete diocesano e promettente artista.
Nella cattedrale mons. De Grisantis aprì e concluse due visite pastorali e diede nobili esempi della sua fortezza morale nelle ripetute malattie, con gravi sofferenze. Nella piazza antistante furono compiute le sue esequie, il primo aprile 2010. Era dal 1923 che non si celebravano quelle di un vescovo ugentino. Infatti, riti funebri erano stati celebrati per mons. Ruotolo nel 1971 e nel 1996 per mons. Miglietta (+Guidonia 19 gennaio) e di nuovo il 30 giugno 2009 quando le sue spoglie mortali ritornarono nel territorio diocesano accolte con umana commozione e cristiana pietà. I sepolcri definitivi di uno e dell’altro sono ora nel santuario di Leuca.
Mons. Vito Angiuli ha iniziato il suo ministero il 19 dicembre 2010 nella cattedrale e ben presto l’ha voluta bella. Perciò i lavori di restauro sono continuati: nel 2012 è stato ripulito il pavimento e i fedeli hanno contribuito per i nuovi banchi. Nello stesso anno è stato completato il restauro del coro ligneo e dell’organo a canne; è stato rimosso il trono dal presbiterio ed è stato sostituito con la “cattedra” il cui dorsale consiste nel paravento proveniente dalla chiesa di S. M. degli Angeli di Presicce.
È proseguito il restauro della cassa armonica e della cantoria (2014) sostituito con un nuovo organo a canne (2015). Il parroco don Rocco Frisullo, con i suoi parrocchiani, ha provveduto al restauro delle bussole laterali del presbiterio, delle porte laterali della cattedrale, quelle sottostanti l’organo, dei due confessionali di mons. Alleva, e poi della bussola centrale con il grande portone d’ingresso. Infine elegante e dignitosa è stata la sistemazione della sacrestia (2015) voluta dal vescovo e per completare, come si è detto, negli anni 2018-2019 il restauro degli altari nella loro interezza e quello della struttura con specifici interventi e del pronao. E non deve sfuggire l’elegante portacero pasquale, presso il settecentesco battistero, desiderato dal parroco Frisullo con l’offerta di una parrocchiana benefattrice: quando viene acceso diventa il segno di Gesù risorto. Non è lui che ha promesso ai primi discepoli “sarò con voi sempre, fino alla fine dei secoli”? E lo ripete ai credenti in lui “viva certezza” e “definitiva speranza”. La cattedrale, come ogni chiesa, è il luogo dell’incontro con il figlio di Dio diventato nostro fratello per sempre.
Questa storia che è vera per i cristiani di Ugento e dintorni è custodita nel “tabernacolo della memoria” rappresentata dai cosiddetti libri parrocchiali. Ed è vivo l’auspicio che vengano aperti per fare il conto delle coppie che hanno celebrato il loro matrimonio, dei genitori che hanno fatto battezzare i loro figli e poi avviati a sperimentare la misericordia di Dio nella loro prima confessione dei peccati e poi la convivenza con Gesù con la prima comunione e con la frequenza alla celebrazione dell’eucaristia nelle domeniche e nelle numerose festività e li hanno fatti confermare nella cresima. E la storia di tanti cristiani che hanno concluso la loro permanenza terrena e sono stati sepolti lì e poi al camposanto lontano.
Per questo nella cattedrale sono consacrati da sempre gli “olii santi” per tutte le comunità parrocchiali della diocesi, nel giovedì santo di ogni anno, e i vescovi hanno dato gli ordini sacri a tanti giovani ai quali poi hanno dato i segni del loro stato ecclesiastico e poi li hanno ordinati ostiari, lettori, accoliti, esorcisti (ordini minori), e poi suddiaconi, diaconi e infine presbiteri (ordini maggiori).
Questa è la storia più alta della cattedrale, dall’estate 1743 alla sua riapertura al culto, il 4 dicembre 2019.
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Per concludere, anzi per continuare.
Ogni intervento di restauro suscita una adeguata ricognizione storica al fine di compiere la corretta comprensione degli spazi architettonici e delle loro strutture murarie e delle espressioni artistiche. Anzi, si può dire che i due momenti si arricchiscono reciprocamente. Se per un verso si recupera la bellezza originaria, dall’altro verso si registrano i successivi sviluppi che l’hanno accresciuta o arricchita, impoverita o nascosta. Così è avvenuto nella cattedrale ugentina. Insomma, alla fine di ogni restauro, si possono dire le forme belle nel corso dei secoli. Oggi, la cattedrale ugentina ha acquistato una “nuova bellezza” come eredità da consegnare e come memoria da trasmettere.
Considerando la sua intera vicenda, si deve dire che nella sua costruzione 1720-1770 e 1855, furono protagonisti i vescovi venuti da lontano e i canonici “chierici e cittadini”, successivamente parroci e fedeli in una sinergia di impegno e di generosità. Di alcuni sono rimasti i segni, dei più non è rimasta traccia visibile o documentaria. Questa osservazione vale soprattutto per il primo e secondo Novecento, quando i parroci hanno realizzato quanto i fedeli parrocchiali e i cittadini hanno consentito loro di compiere.
Le rapide annotazioni che abbiamo dato nella vicenda storica di questa cattedrale, provengono anche dalle accurate ricerche di Luciano Antonazzo al quale vanno i più cordiali ringraziamenti. Utile è stata la sua bella Guida di Ugento. Storia e arte di una città millenaria (=Le guide verdi, 42), Congedo, Galatina 2005.
Come si può rilevare non ho preso in considerazione semplicemente la costruzione di questo luogo sacro, quasi esso fosse un evento semplicemente architettonico. Ho tentato di far “rivivere” la sua evoluzione nel corso dei due secoli, dentro gli sviluppi della società di questa piccola città. Ma è proprio questo immediato contesto che dovrà essere approfondito per mettere in risalto quanto la cattedrale significò e originò. La sua storia completa non potrà disattendere quanto avvenne dentro e intorno ad essa e auspico che altri proseguiranno con la storia di Ugento nell’età moderna e contemporanea. Nello spazio sacro del massimo tempio cittadino, la cristianità di due secoli si espresse compiutamente e coinvolse tutti, dentro e fuori le sue mura. Nella vicenda storica della cattedrale convergono la storia di una chiesa particolare e di una città, ad Ugento e ovunque. Infatti, la missione cristiana e l’impegno civico si intrecciano, come avvenuto negli sviluppi di un popolo e di un territorio: è la connotazione della civiltà europea e della sua storia millenaria.
Ricordarlo giova per guardare avanti. La memoria, infatti, garantisce l’identità di un popolo e di una chiesa particolare, e conforta non poco la speranza per l’avvenire.