
Due fratelli Orlandi, di Tricase vescovi in Terra di Bari nel secondo Settecento
Animo nobile e sensibilità culturale hanno espresso i promotori e i sostenitori di questa iniziativa editoriale che conferma la collaudata perizia del prof. Antonio Scarascia. Egli infatti con il suo impegno storiografico ha contribuito alla costruzione della memoria della città di Tricase. Con questo ultimo lavoro illumina la personalità dei fratelli Orlandi divenuti vescovi in Terra di Bari nel corso del Settecento. La sua ricerca avvantaggia pure le città pugliesi in cui essi furono per oltre un ventennio.
Nei primi anni della seconda metà del Settecento, giunsero a fare i vescovi due monaci celestini, nativi del Salento estremo, Giuseppe Orlandi a Giovinazzo-Terlizzi nel 1752 e suo fratello Celestino a Molfetta nel 1754.
Queste diocesi di origine medievale si risolvevano di fatto nella città e nella campagna circostante. Molfetta contava 9.000 abitanti (1775), Giovinazzo 4.000 e Terlizzi 7.000. Abitavano concentrati nelle viuzze intorno alla chiesa vescovile. La cattedrale giovinazzese e il duomo molfettese erano lambiti dal mare; anzi: quella molfettese era quasi su un isolotto; entrambi erano lì quasi a custodire tante famiglie dalle tempeste dell’Adriatico, quando soffiava la tramontana, e da eventuali incursioni nemiche. I fratelli Orlandi trovarono città marittime con i loro borghi in espansione e con grandiosi segni di modernità. Nella più piccola di Giovinazzo grandeggiava la casa degli Agostiniani, a confronto con l’austero convento dei Cappuccini. A Molfetta erano notevoli gli insediamenti dei Francescani conventuali, la casa dei Gesuiti, il convento dei Domenicani e il piccolo convento dei Cappuccini ai margini dell’abitato. Le due chiese vescovili conservano intatto il loro ruolo simbolico di quelle città marinare e così è avvenuto nei secoli seguenti con restauri continui che ora coinvolgono pure i centri storici.
L’una e l’altra diocesi facevano parte della stessa provincia ecclesiastica presieduta dall’arcivescovo metropolita di Bari. Molfetta era fiera di essere immediatamente soggetta alla S. Sede apostolica, concesso alla fine del Quattrocento da uno dei suoi vescovi Giambattista Cybo, divenuto papa come Innocenzo VIII il 29 agosto 1484. Nell’aprile 1752, proprio nei giorni della nomina di Giuseppe Orlandi, Terlizzi acquistò la sua autonomia ecclesiastica per decisione di papa Benedetto XIV che però la unì a quella di Giovinazzo, risolvendo così una lunga questione sollevata dal clero terlizzese.
Molfetta e Giovinazzo-Terlizzi, facevano parte di una serie di episcopati posti sulle sponde dell’Adriatico, da Manfredonia a Barletta, dove si era rifugiato l’arcivescovo di Nazareth, e poi Trani, Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo, Monopoli e in fine Brindisi e Otranto. Era la geografia ecclesiastica definita al tempo dei normanni quando liberarono definitivamente il meridione d’Italia dalla dominazione bizantina e costituirono il loro “Regno”. Giuseppe e Celestino Orlandi andarono ad abitare in due città marittime che distavano pochi chilometri tra loro, e vissero da vescovi di famiglie dedite alle pesca e all’agricoltura. E vi rimasero fino alla morte.
Giuseppe fu nominato il 23 marzo 1752 da Carlo III re di Napoli e costituito da papa Benedetto XIV il 24 aprile; morì il 15 aprile 1776. Celestino fu nominato dal papa romano il 16 settembre 1754 e morì l’8 luglio 1775. Vale a dire per un ventennio furono insieme a fare i vescovi, come insieme erano diventati monaci celestini, lontani dalla natia Tricase. Qui rimasero altri due fratelli che divennero preti della chiesa matrice e un terzo, l’ultimo della famiglia, che si sposò. La perdita delle carte lasciate dai vescovi Orlandi non consente di scrivere la storia della famiglia, di cui si conserva però il palazzo, con il fregio episcopale dei due.
Celestino era nato il 21 ottobre 1704, Giuseppe il 27 novembre 1713. Entrambi furono mandati a studiare dal padre presso i monaci celestini a Lecce: il primo nel 1716, l’altro nel 1723. Lì godettero della splendida residenza con l’annessa chiesa di Santa Croce, riammodernata con la suntuosa facciata e arricchita dagli altari barocchi dei più noti artisti del tempo. Quindi passarono a Sulmona per la formazione monastica specifica, alla sequela del fondatore Pietro del Morrone dei Fratelli di Santo Spirito. Celestino fu ordinato prete il 19 ottobre 1727 e Giuseppe il 22 dicembre 1736.
Il primo fu coinvolto nel governo dell’ordine e risiedette a Roma in qualità di procuratore generale; Giuseppe lo seguì nel 1729 e si addottorò nel 1736, abitando nel collegio urbano di S. Maria in Posterula.
Poi i percorsi si differenziarono. Giuseppe, a Napoli dal 1740 si coinvolse nei processi culturali del tempo e ben presto godette della stima e dell’amicizia di Antonio Genovesi. Nella capitale del Regno è noto ormai abbastanza il clima generale di rinnovamento, la nova scienza orientava verso la concretezza del fare, sostenendo così i sovrani protesi al buon governo per il bene dei sudditi. Questa nuova cultura, infatti, si andava liberando da schemi dottrinali e delegittimava gli assetti istituzionali che bloccavano riforme attese e desiderate da molti. Si trattava dell’apertura a nuove sintesi in cui perduravano valori antichi e sacri, indiscussi e mai sconfessati, che originava atteggiamenti liberi e coraggiosi. Del resto, tra le sorgenti della nuova scienza, emergevano la natura e le sacre scritture del cristianesimo.
Antonio Scarascia ne aveva scritto ampiamente nel saggio edito nel 2016 che viene qui riproposto, adesso l’autore ci propone la sua tenace indagine sul fratello maggiore Celestino rimasto a Roma, grazie alla documentazione ritrovata nell’Archivio Segreto Vaticano e in quella rilevata nella Biblioteca della Società di Storia Patria di Napoli. Celestino si guadagnò stima e fiducia. Tra i risultati più significativi, scrive Scarascia, vanno ricordati il consolidamento dei celestini nella Puglia settentrionale, la Capitanata, e la conferma di antichi loro privilegi da parte di Benedetto XIV. Questi trovò in Celestino Orlandi un brillante collaboratore in questioni particolari, interessanti, come la riforma del calendario liturgico e del breviario romano. Celestino venne a trovarsi tra cardinali ed ecclesiastici di vario rango e colse luci e ombre dell’apparato curiale e dell’affollato insieme di teologi e di curialisti. Anche Celestino godette la stima di Antonio Genovesi che del suo “singolare amico” elogiava “la grande e bella mente”, gli “amabili costumi” e la passione per le scienze economiche. Infatti Celestino Orlandi aveva propensioni particolari e ad esse volle dedicarsi con più impegno quando nel 1752, a conclusione delle sue funzioni di procuratore generale dell’ordine, si ritirò nel convento di S. Spirito a Vasto. Dalle sue lettere si apprende che si voleva affidargli la cattedra all’Università di Napoli.
Ma pure di lui non si dimenticò l’influente cappellano maggiore di Carlo III, mons. Celestino Galiani, per l’aiuto datogli nelle trattative per il Concordato del 1741 tra la S. Sede ed il Regno di Napoli e nelle varie trattative per l’applicazione delle intese conseguite.
Nella Roma papale e a Napoli capitale del Regno, i fratelli Orlandi acquistarono meriti ecclesiastici e culturali, nel clima del rilancio pastorale di stile tridentino di Benedetto XIV e del riformismo giurisdizionale di Carlo Borbone e del reggente Tanucci, rivolto ad ammodernare le strutture ecclesiastiche del meridione. La nomina alla sede vescovile di Molfetta, come quella del fratello, alla sede vescovile di Giovinazzo, avvenne in questo clima di convergenze del papa romano e del re napoletano su questi ecclesiastici.
Entrambi i fratelli Orlandi, giunti alle loro sedi in Terra di Bari, si misero a fare i vescovi residenti, visitatori e legiferanti, preoccupati della cura animarum delle due città adriatiche, della vita religiosa e morale dei fedeli e della condizione del clero. Antonio Scarascia lo mette in evidenza: per Giuseppe, “filosofo e matematico”, e per Celestino, “teologo e agronomo”, fu una scelta convinta.
Del resto gli Orlandi non erano rimasti insensibili verso i movimenti religiosi e culturali presenti a Napoli e Roma che esprimevano le esigenze di rinnovamento del cattolicesimo europeo. Romeo de Maio, Carlo Arturo Jemolo, Mario Rosa, Gabriele De Rosa e molti altri, hanno descritto che le istanze giurisdizionalistiche e pastorali si alimentavano di spiritualità giansenista tipicamente italiana e meridionale, di correnti religiose quietistiche. Erano diffusi gli scritti di quanti auspicavano il ricupero degli assetti ecclesiastici precedenti a quelli della “monarchia papale”. Vanno considerate pure quelle novità pastorali che geniali sacerdoti proponevano come modi efficaci di vivere da cristiani. È sufficiente ricordare quelle di Alfonso Maria de Liguori per dire l’ondata di missionari evangelizzatori delle popolazioni delle provincie del Regno, vincenziani, redentoristi, passionisti, che si aggiunsero ad altri già operanti.
A Giovinazzo, Giuseppe Orlandi succedeva al predecessore Paolo Mercurio che per vent’anni aveva governato la diocesi (1731-1752), episcopato durante il quale era maturata l’autonomia di Terlizzi sia pur connessa a Giovinazzo. A lui toccò gestire la situazione decisa da Benedetto XIV proprio con la sua nomina alla sede pugliese.
A Molfetta, Celestino succedeva a Fabrizio Antonio Salerni, vescovo per quarant’anni (1714-1754). Probabilmente non si erano estinti del tutto gli strascichi delle controversie giurisdizionali ed erano rimasti aperti i problemi pastorali che il sinodo del 1726 aveva puntualizzato; forse si erano dissolti i torbidi fremiti spirituali rilevati tra le monache del monastero di San Pietro, suscitati da alcuni Gesuiti agli inizi del secolo e di cui se ne era pure perduto il ricordo.
Ulteriori indagini tra le carte del regio cappellano maggiore potrebbero fornire dati interessanti riguardanti le varie confraternite molfettesi, desiderose del regio assenso. Ed una più attenta rilettura dei catasti onciari, ordinati dalla regia amministrazione, potrebbe fornire il quadro complessivo delle istituzioni ecclesiastiche e della loro rilevanza nella città di cui Celestino Orlandi dovette interessarsi durante il loro ventennale governo.
Comunque, segni di entrambi gli episcopati rimangono i monumenti realizzati o progettati. Mi riferisco al maestoso altare del Sacramento che arricchì la piccola cattedrale medievale di Giovinazzo e agli interventi per dare giusta sede al seminario vescovile di Molfetta e al progetto di trasferire la chiesa episcopale dal duomo medievale alla moderna cattedrale, la chiesa di S. Ignazio che i Gesuiti dovettero lasciare dopo la loro espulsione dal Regno napoletano e la loro soppressione. Al di là del significato istituzionale dell’una e dell’altra impresa, gli Orlandi esprimevano quella cultura religiosa e artistica acquisita fin dagli anni giovanili con la consuetudine con quella “religiosa magnificenza leccese” del monastero dei celestini e la loro chiesa di Santa Croce.
Il lavoro di Antonio Scarascia merita apprezzamento. Rappresenta un arricchimento biografico di questi cittadini che fecero onore alla natia Tricase e di questi ecclesiastici che contribuirono alla cultura del secolo. Il loro ministero episcopale rimane la meta storiografica che il lavoro di Scarascia ci fa intravedere. A lui, in verità, non sfugge di rilevare che la vicenda dei due vescovi si inserisce nei più ampi contesti della Chiesa e del Regno del Settecento. Vale a dire tra autorità ecclesiastiche periferiche e papali e gestori centrali e provinciali della Regia giurisdizione. La copiosa letteratura storica di questi ultimi decenni ci ha avvertiti che quel secolo, attraverso dinamiche complesse e talvolta contradditorie, segnava l’avvio della crisi della “cristianità europea”. Orizzonti inediti si ponevano tra religiose e società e sarebbero apparsi pure nelle due diocesi di Terra di Bari come pure in molte altre parti del Regno meridionale, d’Italia e dell’intera Europa. La cacciata dei Gesuiti dai vari regni fu un segnale: e quando il 21 luglio 1773 Clemente XIV sciolse la Compagnia di Gesù, gli episcopati degli Orlandi si stavano concludendo.
Probabilmente Celestino e Giuseppe non immaginarono quanto la “rivoluzione” avrebbe sconvolto l’Europa venti anni dopo.
Salvatore Palese