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Adorare il mistero della gloria e annunciare la pace universale

Omelia nella Messa della Notte di Natale
chiesa Cattedrale – Ugento, 24 dicembre 2022. 

Cari fratelli e sorelle,

ogni domenica ripetiamo il canto degli angeli, quasi a ricordarci il significato dell’Incarnazione del Verbo di Dio: «Gloria in cielo e pace in terra». Il Natale non è la festa di un giorno, ma segna una data che rimane impressa nella storia e diventa il perno centrale della nostra vita. Il canto degli angeli ci ricorda la nascita spirituale di Cristo come avvenimento che deve realizzarsi ogni giorno. L’ephapax dell’evento storico deve tramutarsi nell’osakis della conformazione mistica. 

Questo inno canta l’unità dei beni di Natale: gioia, gloria, pace, dei quali gli angeli e i pastori si fanno annunciatori e testimoni. Doni contrari ai mali del nostro tempo: guerra, crisi, povertà, denatalità e aborto. Su queste tenebre del mondo, il Bambino rifulge come un raggio di speranza ed annuncia: c’è ancora vita, c’è ancora pace, c’è ancora Dio, il Dio della gloria e della pace.

Gli angeli annunciano il mistero di gloria e di pace 

Il Gloria cantato dagli angeli e accolto dai pastori è uno dei quattro inni (MagnificatBenedictus, Nunc Dimittis) con i quali Luca apre il racconto delle origini di Gesù. Come un ritornello deve accompagnare ogni momento della nostra vita. Lo stesso evangelista lo riproporrà, in forma inversa, nella pagina dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38). Si forma così una sorta di inclusione: la moltitudine celeste canta la pace sulla terra per la nascita del Figlio, mentre il gruppo dei discepoli arrivati con Gesù nella città santa, canta la pace in cielo! 

Così Natale e Pasqua si rapportano vicendevolmente. Se il Natale rappresenta la salvezza allo «stato nascente»[1], la Pasqua il suo frutto maturo. Il Natale richiama il cammino dal cielo alla terra, la Pasqua indica il ritorno dalla terra al cielo. Non c’è un cielo senza la terra e non c’è una terra senza cielo. Allo stesso modo, non c’è gloria in cielo senza pace sulla terra, e non c’è pace tra gli uomini senza avere intonato prima gloria al Dio altissimo. Dalla gloria fiorisce la pace e dalla pace scaturisce la gioia. Ci sarà vera pace solo se proviene dalla gloria, come conseguenza della giustizia di Dio, metro di misura della giustizia tra gli uomini. Nella nascita di Gesù, scrive san Bernardo, «finalmente, giustizia e pace si sono abbracciate, le quali non poco sembravano sin qui essere in dissidio»[2]

Tutto parte dalla gloria di Dio e dal dovere per l’uomo di glorificare il suo Signore. Non che Dio abbia bisogno della nostra lode. Da sempre egli è circonfuso di eterno splendore (gloria oggettiva). Tuttavia è giusto e doveroso che la creatura lodi il Creatore, lo ringrazi e lo glorifichi (gloria soggettiva). Solo quando l’uomo metterà la gloria di Dio a fondamento di ogni pensiero e azione, allora, e solo allora, nel mondo fiorirà la pace. La vera pace, infatti, è conseguenza dell’ossequio alla volontà di Dio. Shalom non è soltanto assenza di guerre e di conflitti umani, ma è la “pace messianica”, l’insieme di tutti i beni che derivano dal ristabilito, pacifico e filiale rapporto con Dio. 

Se non si rende gloria a Dio, se egli viene “dimenticato o addirittura negato”, la pace diventa impossibile da raggiungere. Alcune correnti di pensiero ritengono le religioni monoteistiche colpevoli di “intolleranza” e “violenza”. Certo, nel corso della storia vi sono stati “travisamenti del sacro” e vi è ancora un uso indebito della religione. Ciò si verifica quando l’uomo tenta di manipolare Dio considerandolo quasi una proprietà privata. Il rifiuto e la dimenticanza di Dio però producono conseguenze peggiori non solo contro la concordia tra gli uomini, ma soprattutto contro la stessa dignità umana. Oscurato il volto di Dio, si deturpa e scolorisce il volto dell’uomo. 

La fede nel Dio Bambino nato a Betlemme, invece, fa emergere forze di umanizzazione, riconciliazione e pacificazione. Nel buio del peccato e della violenza, la fede nel Verbo incarnato inserisce il raggio luminoso di una vera umanità che continua a brillare come stella di incalcolabile valore. Preghiamo perché nel nostro tempo il Dio della pace forgi le spade in falci (cfr. Is 2,4) e, al posto degli armamenti per la guerra, subentrino aiuti ai poveri, ai migranti e ai sofferenti. Chiediamo al Signore che illumini coloro che reggono le sorti del mondo perché comprendano l’assurdità della guerra e di ogni forma di violenza perpetuata contro gli innocenti e gli indifesi.

I pastori contemplano e adorano il mistero ineffabile del Verbo incarnato

In questa prospettiva, non desta meraviglia che siano proprio gli angeli ad annunciare al mondo il lieto evento della nascita del Salvatore. È promessa di pace, un dono che viene dal cielo. Occorre però che gli uomini, come i pastori, siano disponibili ad accogliere il Dio Bambino (cfr. Mt 11,25; 18, 2-4). I pastori, infatti, sono simbolo degli uomini «amati da Dio» (eudokíaLc 2,14). La parola greca eudokía, infatti, non va intesa in senso antropologico, ma in riferimento alla volontà divina di salvezza (cfr. Lc 10,21, e il verbo eudokéo in 3,22 e 12,32). Il confronto con gli scritti di Qumran conferma questa interpretazione[3]. Non si tratta della “buona volontà” umana[4],  ma come afferma sant’Agostino della buona volontà di Dio che precede la nostra buona volontà[5]. Commentando le parole di san Paolo (cfr. Rm 5,2), egli afferma: «Non dice della nostra gloria, ma della gloria di Dio, perché la giustizia non ci venne da noi, ma si è affacciata dal cielo»[6].

D’altra parte, la lieta notizia non è riservata solo ai pastori, ma è «per tutto il popolo» (Lc 2, 10). Anche Simeone proclama che Gesù Bambino è “luce delle genti” e «per tutti i popoli» (Lc 2, 31). Gesù stesso dirà che il Padre ama tutti gli uomini e «fa sorgere il sole sopra i buoni e cattivi e fa piovere sui giusti e gli ingiusti»(Mt 5, 45). Il Natale è la festa della rivelazione della bontà e misericordia di Dio e della universalità del suo amore e della sua salvezza.

Bisogna sempre mantenere il giusto equilibrio tra la gloria che splende nel cielo e la pace che si diffonde nel mondo, tra l’annuncio della salvezza universale e il primato dell’adorazione del Salvatore. Per questo, una volta che gli angeli si sono allontanati, i pastori si esortano a vicenda; «Andiamo fino a Betlemme a vedere questo avvenimento» (Lc 2, 15). Nella versione latina il verbo transeamus indica una sorta di “traversata” per uscire dalle proprie abitudini di pensiero e di vita e giungere all’essenziale, oltrepassando il mondo delle tenebre e del peccato. 

Cari fratelli e sorelle, non bisogna indugiare, ma “affrettarsi” come i pastori (cfr. Lc 2, 16), lasciarsi prendere da una santa inquietudine e sollecitudine per “vedere” il segno annunciato dagli angeli. Prima di ogni altra cosa, è necessario sostare in un silenzio adorante davanti a questo Bambino. Abbiamo bisogno di vederlo con lo sguardo di fede. Il verbo “vedere” nel Vangelo di Giovanni contiene un pressante invito alla contemplazione e all’adorazione. Lasciamoci avvolgere da questa mistica atmosfera! Se vogliamo cantare il canto degli angeli ed essere nel mondo annunciatori e testimoni della pace che Cristo ha portano nel mondo con la sua incarnazione, dobbiamo innanzitutto con stupore e ammirazione fissare lo sguardo su Gesù Bambino, credere nella sua messianicità e adoralo come Figlio di Dio.  


[1] R. Cantalamessa, I misteri di Cristo nella vita della Chiesa, Ancora, Milano 1992, p. 43.

[2] Bernardo di Chiaravalle, In annuntiatione B. V. Mariae, in PL,183, 390°.

[3] Cfr. 1Q 4,32-33.

[4] «Regnum celorum vïolenza pate / da caldo amore e da viva speranza, / che vince la divina volontate» (Dante Alighieri, Paradiso, XX, 94-96).

[5] Cfr. Agostino, Commento ai salmi, V, 17,8-10.

[6] Id., Discorso 185, 3, 12. Il magistero pontificio ha accolto questa visione. Se Papa Giovanni XXIII, nel Radiomessaggio del 22 dicembre 1962, parlando dell’amore per la pace, sottolineava la necessità della buona volontà degli uomini, Giovanni Paolo II nelDiscorso al Collegio dei Cardinali (22 dicembre 1980) proponeva la comprensione di eudokía come buona volontà di Dio. La traduzione più precisare pertanto è la seguente: «Agli uomini che sono benvoluti da Dio, che sono oggetto della benevolenza divina». La salvezza è per tutti gli uomini, perché tutti gli uomini sono oggetto della benevolenza divina. Dio ha pensieri e vie di pace differenti da quelle umane.